Le quote rosa che non esistono

- Giorgio Vittadini

Le ultime rilevazioni dell’Istat riportano un dato molto incoraggiante sull’occupazione femminile. Ma non è tutto oro quel che luccica, dice GIORGIO VITTADINI

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Lapresse

Le ultime rilevazioni dell’Istat inerenti l’occupazione a giugno riportano un dato apparentemente molto incoraggiante: il tasso di occupazione femminile è salito al 48,8%, la percentuale più alta da quando viene effettuata la rilevazione, vale a dire dal 1977, e il tasso di inattività è leggermente sceso. La notizia potrebbe spingere a facili entusiasmi perché una delle carenze storiche del nostro mondo del lavoro è proprio la scarsa partecipazione delle donne. Se cinquanta anni fa ciò poteva essere giustificato per una diversa concezione di famiglia a struttura patriarcale in cui convivevano diverse generazioni, e per un lavoro femminile non documentato statisticamente in ambito agricolo, oggi tale ritardo non sembra più giustificabile. Perché dopo l’esodo massiccio dalla campagna alla città, dopo l’avvento della famiglia mononucleare, il basso tasso di partecipazione delle donne al mercato del lavoro significa soprattutto una loro marginalità nel contesto sociale.

Tuttavia non è tutto oro quel che luccica. Innanzitutto perché la quota delle lavoratrici italiane è ancora basso, al di sotto della percentuale dell’Europa del Sud (52%) e ancora più distante dal dato dell’Europa centrale e del Nord, rispettivamente del 64,6% e 69%. Anche il tasso di inattività, benché sia leggermente sceso riguarda ancora un numero piuttosto elevato: 44,4%. Inoltre, perché, oltre due terzi dell’aumento riguardano contratti a tempo determinato, che espone una donna a un rischio maggiore di perdere il lavoro rispetto agli uomini, sopratutto se vuole avere figli. 

E ancora: l’incremento di attività riguarda non le giovani, ma si concentra soprattutto tra le over 50. La ragione potrebbe essere l’innalzamento dell’età pensionabile introdotto dalla riforma Fornero.

Un altro dato contribuisce a smorzare gli entusiasmi. I dati lombardi, che riguardano una regione in cui la riscossa delle donne dovrebbe essere più evidente, forniscono una ulteriore nota negativa perché mostrano che l’incremento dell’occupazione femminile avviene in attività non qualificate. Come ad esempio, tra gli addetti all’assistenza personale (badanti), che sono quasi esclusivamente donne: mentre gli avviamenti di lavoratori stranieri sono calati dal 77% del 2008 al 71% nel 2016, le italiane sono in aumento dal 22% del 2008 al 29% del 2016. Anche tra gli addetti alle pulizie e ai servizi d’igiene sono in aumento le donne: le proporzioni erano 60% italiane e 40% stranieri nel 2008 e 70%-30% nel 2016.

Si tratta di dati che descrivono la progressiva sostituzione di lavoratori stranieri, uomini e donne, con lavoratori italiani che si sta verificando negli ultimi anni nelle occupazioni più umili. Infatti, se i lavoratori stranieri nel periodo 2008-2016 rappresentano mediamente il 23% del totale, con un andamento pressoché costante per ciò che concerne il personale non qualificato nella logistica e nello spostamento merci (i facchini), nel 2008 gli avviamenti riguardavano per la maggior parte lavoratori stranieri (53% contro il 47% di italiani), mentre nel 2016 le proporzioni si invertono con il 57% di avviamenti di lavoratori italiani e il 43% di stranieri.

Nella stessa direzione, per ciò che concerne gli operai addetti alle costruzioni e alle manutenzioni delle strutture edili (muratori), nel 2008 gli avviamenti riguardavano per il 54,8% lavoratori italiani e per il 45,1% stranieri, mentre nel 2016 la percentuale di italiani è in aumento e si attesta al 56,1%.

Se ciò avviene in questa misura nella emancipata Lombardia, a maggior ragione possiamo aspettarci che ciò accada nelle parti meno sviluppate del Paese. 

In questo quadro l’incremento di partecipazione femminile, oltre a essere ancora limitato e insufficiente nel complesso, è presumibilmente attribuibile in gran parte alla crisi. I ceti più poveri sono costretti a fare concorrenza agli immigrati nei lavori più umili e ciò riguarda anche le donne che si mettono a fare le badanti, le domestiche, le operaie perché in una famiglia uno stipendio solo non basta più.

Quell’auspicabile riscatto del lavoro femminile qualificato appare ancora lontano. Ci sono sempre meno giovani e sempre più vecchi, sempre meno lavoratori e sempre più pensionati e malati. Il nostro Pil non può che risentirne, il nostro sistema previdenziale e pensionistico vanno verso il collasso e l’aumento della partecipazione femminile al lavoro qualificato può essere uno dei rimedi strutturali. 

Ma non è solo un problema economico: è culturale e umano. Nel 2017 una donna che si senta valorizzata a livello professionale, e non una semplice pedina marginale nella società, può essere molto più pronta al ruolo di moglie e madre. Ciò che perde in termini di tempo e disagi in casa può guadagnare in termini di minor frustrazione, soddisfazione, positività, creatività.

Ma c’è un impedimento strutturale: la nostra società e il nostro mondo del lavoro guardano ancora con troppa diffidenza una donna che desidera sia lavorare sia essere moglie e madre. Non c’è solo uno Stato che, a differenza ad esempio di quello francese, penalizza la famiglia (negli ultimi anni ha fatto mancare alle famiglie 8 miliardi di contributi). Ancora troppe imprese sopportano con malcelato scontento la legislazione sulla maternità e appena possono, soprattutto per le mansioni di valore più elevato, emarginano le madri quando tornano al lavoro, con un mobbing strisciante. Va bene una donna, basta che rinunci alla sua identità, che viva da single con qualche avventura episodica, ma senza legami affettivi stabili, e soprattutto senza figli. Siamo lontani mille miglia da quelle nazioni in cui non solo c’è una legislazione che rende compatibile famiglia e lavoro (questa c’è anche in Italia) ma anche dalla consapevolezza che una donna con legami e figli può essere più utile anche all’azienda. Perché il minor tempo dedicato si traduce in una maggiore passione e creatività, oltre che umanità e positività, e quindi maggior produttività. Se vogliamo che anche l’altra metà del cielo contribuisca più sostanzialmente al nostro sviluppo culturale ed economico non possiamo limitarci alle quote rosa o ai nomi delle professioni coniugate al femminile. 

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