SCUOLA/ I test slittano, ma l’”effetto-Sud” rimane

- int. Paolo Sestito

Il ministro dell’Istruzione Carrozza ha annunciato il rinvio a settembre dei test d’accesso alle facoltà universitarie a numero chiuso. Ma resta un problema aperto. PAOLO SESTITO (Invalsi)

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Ieri il ministro dell’Istruzione Maria Chiara Carrozza ha annunciato il rinvio a settembre dei test d’accesso alle facoltà universitarie a numero chiuso. Contestualmente, cambia il meccanismo di assegnazione del controverso “bonus maturità” al voto conseguito in occasione dell’esame di Stato 2013. 

Le modifiche saranno contenute in un decreto ministeriale che sarà firmato dal ministro mercoledì prossimo, 12 giugno. Esso regolerà – recita il comunicato del Miur – «le modalità delle prove di ammissione ai corsi di laurea ad accesso programmato nazionale per l’a.a. 2013-14». «Il nuovo drecreto, che sostituirà quello emanato il 24 aprile scorso, prevede la ridefinizione dei criteri di valorizzazione del percorso scolastico e il posticipo delle date delle prove a settembre».

Il bonus rimane, ha spiegato il ministro, perché «è basato su di una legge che è vigente (risalente a Fioroni, ndr). La legge impone i dieci punti di bonus, noi stiamo cercando di cambiare, già da quest’anno, il meccanismo di articolazione, in modo da andare verso una maggiore equità, per calcolare il bonus in rapporto alle singole commissioni e non a tutto il territorio nazionale». 

Il meccanismo di assegnazione aveva scatenato una sollevazione generale perché, attribuiva allo studente un punteggio – un bonus, appunto, da 4 a 10 punti per i voti da 80 a 100 – dipendente non da lui, ma dalla media dei voti conseguiti nella sua scuola nell’anno scolastico precedente.

Tutto da rifare, ha detto il ministro. In attesa di conoscere come verrà modificato il meccanismo, resta il fatto che le scuole del sud, come ogni anno, premieranno i loro studenti con voti di maturità mediamente più alti rispetto a quelli delle regioni centro-settentrionali della Penisola. Secondo Paolo Sestito, commissario Invalsi, questo implica che in futuro almeno una parte dell’esame finale non potrà non essere standardizzata.

La confusione e venuta dal modo in cui si è voluto tener conto, in sede di definizione del punteggio d’accesso a certe facoltà universitarie, della carriera precedente degli studenti. Per quali ragioni si può pensare che i risultati in un livello scolastico precedente possano o debbano influenzare i risultati successivi?
Che vi sia un legame tra performance in un dato momento e risultati successivi è un dato di fatto. Quando cerchiamo un professionista o un artigiano, o quando un’impresa cerca un lavoratore, la prima cosa a cui si guarda sono le cosiddette referenze. La logica del far riferimento ai risultati scolastici precedenti nel considerare l’accesso agli studi universitari è altrettanto naturale e del tutto in linea con la logica dell’uso di un test di ingresso.

Quindi?
L’università è un percorso di studi di massa ma non universale in cui, a differenza che negli altri gradi scolastici, si devono selezionare gli accessi, perché ho solo un determinato numero di accessi possibili e per motivi di equità e di efficienza è preferibile garantire l’accesso ai «migliori» o, anche laddove il numero di posti non sia rigidamente predefinito, perché devo indirizzare il potenziale studente verso i corsi a lui più consoni, prevenendo un eccesso di successivi abbandoni; citando a memoria dati di qualche anno or sono, ricordo che uno su sei dei neo-immatricolati dopo un anno risultava non avere conseguito neppure un credito formativo utile…

Allora che cosa bisogna fare?

Per vagliare se un determinato studente abbia la stoffa adatta per un certo corso di studi ha senso guardare tanto alla carriera scolastica pregressa, quanto ai risultati di un test specifico. Il vantaggio di quest’ultimo è che ci si può focalizzare su quelle abilità che servono per garantire il successo in un determinato corso di studi; almeno potenzialmente, perché in realtà la bontà predittiva dei test oggi condotti non mi risulta essere stata oggetto di grandi analisi e approfondimenti e vanno ad esempio ricordate le critiche, anche se talvolta un po’ superficiali e impressionistiche, sulla irrilevanza di alcuni quesiti un po’ nozionistici in passato adoperati per i test d’accesso a Medicina.

E per quanto riguarda la carriera pregressa?
Il vantaggio è che si considera lo studente da un punto di vista più complessivo. Utilizzare i risultati di quest’ultima ha anche un ulteriore potenziale vantaggio: quello di stimolare i ragazzi a ben fare in tutti gli aspetti della propria vita scolastica, evitando che ci si prepari esclusivamente per questo o quel test. Oggi molte università tendono a proporre test di accesso relativamente precoci (addirittura già al termine della quarta superiore). È una tendenza con aspetti positivi.

Perché?
Perché si evita la logica da ultima spiaggia del test fatto in zona Cesarini e perché conoscere relativamente presto i propri risultati in più test orienta i ragazzi nelle loro scelte future, evitando che queste vengano effettuate frettolosamente nella breve estate che intercorre tra l’esame di maturità e l’avvio dei corsi universitari.

Ieri però il ministro ha deciso proprio questo: i test saranno posticipati a settembre.
Non conosco i termini del provvedimento del ministro e non spetta a me discuterne. Si tratta comunque di un test diverso perché è una prova condotta in un’unica tornata e, soprattutto, mi pare che si sia intervenuti su un’emergenza: il meccanismo del bonus introdotto quest’anno era un po’ una scorciatoia, che come quasi sempre avviene per le scorciatoie, non stava funzionando granché.

Quel bonus è stato sommerso da una valanga di critiche. Giuste o ingiuste?
Il bonus doveva venir tarato sulla base dei risultati della singola scuola per tener conto del fatto che questi non sono granché comparabili tra scuole: si usavano però i risultati dell’anno prima, che potrebbero essere stati basati su una metrica diversa da quella oggi adoperata, col rischio di penalizzare o favorire indebitamente un certo studente. Inoltre, come chiarito da Massimiliano Bratti su la voce.info, tarare i risultati del singolo studente sulla base di quelli della sua scuola è sufficiente solo nell’implausibile caso in cui tutte le scuole abbiano la stessa composizione della popolazione studentesca: in altri termini, se tra scuole non sussistono differenze nelle abilità medie degli studenti.

E quindi come si può uscirne?

 

Se si segue la via maestra anziché le scorciatoie non si può che mirare a standardizzare i risultati delle diverse scuole. La mancanza di standardizzazione dei voti scolastici è comprovata dal divario che spesso esiste tra prove standardizzate – quelle a livello nazionale condotte dall’Invalsi, ma anche quelle Ocse-Pisa e Iea − e voti scolastici. Si noti bene che il divario esiste tra scuole e tra classi della stessa scuola e non tanto invece all’interno della stessa classe: i giudizi relativi dati dagli insegnanti all’interno di una certa classe sono fortemente correlati coi risultati delle prove Invalsi, a conferma del fatto che queste misurano quanto si fa nelle scuole e non cose esoteriche e lunari.

Come spiegare le grandi differenze nella distribuzione dei risultati delle prove Invalsi tra scuole ed aree del paese, ed invece un appiattimento dei voti di maturità?
Il divario tra voti e prove standardizzate è plausibilmente dovuto al fatto che la pressione sociale che si esercita sugli insegnanti, se priva di contrasti quali la disponibilità di prove standardizzate, può indurre questi ad adeguare il proprio metro agli studenti che si hanno di fronte. Entro certi limiti questo è ragionevole, perché limitarsi a certificare una sfilza di insufficienze potrebbe essere poco efficace, risultando alla lunga demotivante per il singolo studente, ma se portato agli eccessi rischia di generare effetti perversi: in ogni singola classe gli standard per riuscire vengono abbassati e anche i ragazzi relativamente più bravi finiranno col «sedersi», perché tanto sono già al massimo dei voti (e pensano, sbagliando, di essere al massimo in senso assoluto), privando anche gli altri di un possibile traino. Queste pressioni sono spesso più rilevanti a Sud, per fattori culturali e anche perché si tratta di un contesto dove conta più che altrove il «pezzo di carta», legato ai voti scolastici, mentre un mercato del lavoro poco dinamico e poco meritocratico più raramente premia le competenze effettive, la cui acquisizione risulta quindi poco incentivata.

Ma come recuperare questa maggiore standardizzazione? L’Invalsi sta facendo qualcosa?
L’Invalsi sta predisponendo delle prove standardizzate per la V superiore e sta ipotizzando di collocarle nell’inverno del V anno per consentire alle prove di esercitare una funzione anche di orientamento nelle successive scelte sui percorsi universitari. Sottolineo la parola anche.

Perché questa cautela?
Non pensiamo che le prove Invalsi, o più in generale i test di ammissione che tante università ormai propongono agli studenti di svolgere piuttosto precocemente, debbano far venire meno un momento di conclusione della scuola superiore. Se così fosse si rischierebbe  una perdita di senso di tutto un pezzo di percorso scolastico: chi stia pensando alla prosecuzione all’università starebbe concentrato esclusivamente sui propri test di accesso – col rischio di una focalizzazione eccessiva dei propri studi verso questo o quello specifico test – lasciando tutti gli altri studenti, che non sono pochi, privi di stimoli.

In un modo o nell’altro, l’ultimo anno delle superiori rappresenta quasi un problema…
Può avere senso strutturare più esplicitamente il V anno delle superiori – che, va ricordato, è il tredicesimo anno di un percorso che negli altri paesi di norma prevede un iter di 12 anni − come momento di passaggio verso il lavoro e/o gli studi universitari. Del resto, se si vuole dare corpo a quella Youth Guarantee di cui oggi tanto si parla, è dalla scuola che occorre partire. Ma far questo è cosa diversa dal dire che un intero anno scolastico debba essere esclusivamente dedicato a preparare questo o quel test d’accesso.

Torniamo a quello che l’Invalsi sta facendo.

L’Invalsi ha pre-testato nelle scorse settimane, in un piccolo campione di scuole, un insieme di quesiti che nel prossimo anno saranno adoperati in una prova standardizzata su base universale in V superiore. Il 2014 sarà ancora un anno di transizione e di sperimentazione perché le questioni da affrontare, per un istituto non ricco come l’Invalsi, sono tante. A breve diffonderemo comunque una versione zero del Quadro di riferimento che dettaglia cosa queste prove vogliono misurare. Oltre al pretest nelle scuole, procederemo, d’intesa con alcune università, a sottoporre queste prove a chi stia iniziando un corso di studi universitari, con l’obiettivo di capire come queste prove si raffrontino coi risultati dei test di accesso che quegli stessi studenti hanno effettuato.

A che scopo?
Questo proprio perché pensiamo che queste prove standardizzate, a regime, possano essere tenute in conto tanto ai fini di governare l’accesso agli studi universitari − e come detto le abbiamo collocate a gennaio-febbraio in modo da poter dare un feedback agli studenti a fini di orientamento − quanto come componente, chiaramente standardizzata, dell’esame conclusivo del II ciclo. In entrambi i casi parlo di componente e non di uso esclusivo delle prove Invalsi, anche perché nel futuro prossimo queste comunque misureranno solo alcuni ambiti di italiano e matematica (e più in là inglese) intese come competenze trasversali.

A che punto siete?
Al momento ci stiamo soprattutto concentrando sugli aspetti intrinseci delle prove. Vi è da definire il grado di differenziazione tra percorsi scolastici, da organizzare il fatto che già dal 2014 le prove siano condotte su computer, eccetera.

Siete stati accusati di voler cambiare l’esame di Stato, voi, un istituto di supporto tecnico al Miur.
Le tante complessità da trattare suggeriscono in realtà di evitare scorciatoie circa l’uso delle prove Invalsi all’interno dell’esame di Stato, un tema su cui è indispensabile una riflessione più complessiva, a cui l’Invalsi vuole contribuire ma nel rispetto delle prerogative istituzionali dei vari soggetti. Credo sia però auspicabile porsi l’obiettivo d’una riforma complessiva di quell’esame nel 2015, anno in cui comunque giungerà a compimento la riforma delle secondarie superiori. 

(Federico Ferraù)





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