SCUOLA/ Liceo di 4 anni, perché Renzi non si “iscrive”?

- Giuseppe Bertagna

Il tema di una riduzione del corso di studi impegna seriamente non solo il ministro Carrozza, ma anche il Pd di Matteo Renzi. Primo di una serie di articoli di GIUSEPPE BERTAGNA

matteorenzi_appunti_leopoldaR439 Matteo Renzi (Infophoto)

Con i decreti ministeriali firmati il 5 novembre 2013, il ministro dell’Istruzione on. Maria Chiara Carrozza ha autorizzato la sperimentazione del liceo di 4 anni a partire dall’anno scolastico 2014-2015 in quattro istituti di istruzione secondaria statali (il Majorana di Brindisi, il Tosi di Busto Arsizio, l’Anti di Verona e il Flacco di Bari), nonché in tre istituti paritari (Carli di Brescia, il collegio San Carlo di Milano e l’Olga Fiorini di Busto Arsizio). Potrebbero essere presto coinvolte nella sperimentazione anche alcune altre scuole della Campania (si parla dei Licei Garibaldi e Sannizzarro di Napoli e dell’Istituto Telesio di Benevento). 

La sperimentazione ha rilanciato il dibattito sull’opportunità di ridurre da 13 a 12 gli anni di studio necessari per l’accesso all’università – come accade ormai nella maggior parte dei paesi che prevedono, tra l’altro, non 12, ma addirittura 11 e, in qualche caso, perfino 10 anni di scuola per accedere non all’università, ma ai corsi della formazione professionale superiore paralleli all’università, purtroppo da noi quasi inesistenti, ma all’estero molto sviluppati  e anche parecchio frequentati. Con la conseguenza di un paradosso da decenni documentato dalle statistiche Ocse o Eurostat: l’Italia, rispetto agli altri paesi avanzati,  può vantare una percentuale molto bassa di giovani con un titolo di studio superiore; in compenso, però, ha la percentuale più alta di venti-ventiquattrenni ancora in università.  

1. La legge Berlinguer (2000) – La sperimentazione menzionata ha “rilanciato il dibattito” sulla diminuzione degli anni di studio per accedere all’esame di Stato perché una prima ipotesi in questo senso era stata avanzata, tra il 1997 e il 2000, dal ministro della Pubblica istruzione on. Luigi Berlinguer. L’ipotesi, come è noto, divenne ordinamento con la legge 10 febbraio 2000, n. 30 (GU 23 febbraio 2000, n. 44). 

La legge raggiungeva l’obiettivo dei 12 anni di studi pre universitari, prevedendo una scuola di base di sette anni che unificasse e riducesse di un anno l’allora ancora denominata “scuola elementare” quinquennale e la tradizionale scuola secondaria di I grado triennale; articolava, poi, in un biennio unitario obbligatorio e in un successivo triennio non obbligatorio tutti i percorsi della scuola secondaria, chiamati licei. In questo contesto panlicealista, si assimilava l’intera istruzione tecnica e professionale al liceo tecnico-tecnologico, ancorché provvisto all’interno di numerosi indirizzi. 

La legge, abrogata formalmente dalla legge delega Moratti nel 2003, non entrò mai in vigore e fu respinta nei suoi contenuti per tanti motivi. 

Alcuni erano di pedagogia della scuola. Per esempio, la compressione efficientisitica degli apprendimenti in un’età come la fanciullezza e la preadolescenza, al contrario bisognosa di tempi ed attività educativo-didattiche distese e, soprattutto, molto personalizzate; lo scolasticismo intrinseco ad un intero ordinamento programmaticamente pensato come in sé capace di essere professionalizzante senza mai, però, di fatto, far incontrare ai giovani il lavoro, la professione, le competenze specifiche come straordinari giacimenti educativi e culturali da cui attingere anche per la formazione generale della persona; l’eccessiva separazione, per di più percepibilmente gerarchica, tra obbligo di istruzione nella scuola (scuola di base più biennio secondario) e obbligo formativo destinato ai falliti o ai disadattati della scuola; il ribadito messaggio sul privilegio dell’università rispetto ad un visibile e strategico rafforzamento della formazione professionale che, partendo da quella secondaria, potesse giungere, con percorsi graduali e continui, a quella superiore, fino ai 21-23 anni; oppure ancora lo svilimento del valore educativo, culturale e didattico dell’apprendistato, escluso non solo dall’obbligo di istruzione, ma nemmeno contemplato, dopo di esso, come possibile percorso autonomo in vista dell’acquisizione dei titoli di studio secondari e superiori in assetto lavorativo. 

Altri motivi di critica erano politici (i mugugni si sprecarono nella stessa maggioranza di governo) e altri ancora erano sindacali (Berlinguer perse addirittura il posto per la vicenda del famoso “concorsone” che intendeva, attraverso la − a dire il vero − risibile formula di quiz pedagogici e didattici, reintrodurre il vecchio “merito distinto” nella carriera dei docenti; ma si comprese subito che la dura reazione sindacale al “concorsone” era obliqua: serviva più per colpire una riforma ordinamentale, la quale, nonostante l’allineamento della Cgil, non era stata digerita dalla base e dagli altri sindacati, che per respingere il significato, se non proprio le modalità, del concorsone). 

Il “motivo dei motivi” dell’inattuazione dell’ordinamento Berlinguer, tuttavia, fu una non ideologica consapevolezza dei gravi problemi congiunturali provocati dalla cosiddetta “onda anomala” che si sarebbe venuta a determinare con l’abbassamento da 8 a 7 anni dell’istruzione di base: ovvero dalla contemporanea sovrapposizione di due leve scolastiche. Per sette anni, infatti, sarebbe stato necessario avere a disposizione molte più aule scolastiche e molti più trasporti, mense e, nondimeno, personale docente, ma sapendo dall’inizio che, alla fine del processo attuativo, non solo questo potenziamento non sarebbe più servito, ma addirittura, visti gli andamenti demografici, si doveva ulteriormente sgonfiare il numero iniziale di partenza. Senza pensare, inoltre, che, se il personale aggiuntivo si poteva reclutare in tempi brevi, non altrettanto si poteva prefigurare per l’edilizia scolastica e l’insieme della logistica. 

Rilevanti costi economici, per di più a perdere, dunque; e in un periodo nel quale i noti problemi di bilancio del nostro paese diventavano conclamati. Ai costi economici, inoltre, andavano contabilizzati come non meno significativi anche i costi psicologici e sociali, visto che, secondo le disposizioni ministeriali attuative della legge, per altrettanti anni, bisognava individuare discrezionalmente una percentuale di ragazzi che sarebbero stati ammessi d’ufficio ad una classe superiore: come avrebbero reagito le famiglie dei figli “lasciati indietro”? Come, con quali criteri, i docenti avrebbero scelto questi “migliori” a cui “far saltare” un anno per sette anni? Magari guardando solo al profitto, secondo mere logiche nozionistiche? Oppure affidando il tutto alla discrezionalità dei docenti? Come avrebbero reagito gli allievi “premiati” o “puniti”? E le famiglie? E i diversi gruppi sociali?

(1 − continua)





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