SCUOLA/ Da cosa dipende davvero l’apprendimento (e l’educazione) dei giovani?

- Marco Lepore, int. Franco Viganò

SPAperlascuola è un servizio di orientamento che si occupa del  ruolo che le soft skills giocano nel processo di apprendimento. Intervista al fondatore e presidente, FRANCO VIGANO'

scuola_studenti_esame4R439 LaPresse

Franco Viganò, brianzolo, classe 1948, è stato per 26 anni dirigente scolastico nell’Istituto Paritario Don Gnocchi di Carate Brianza. Due anni fa ha fondato SPAperlascuola, un servizio di orientamento che si occupa del  ruolo che le soft skill giocano nel processo di apprendimento, della possibilità di valutarle in modo non approssimativo e della cura di un modo di lavorare coi ragazzi che ne favorisca l’emergere. Abbiamo voluto intervistarlo per capirne di più.è Sul tema è in uscita, a gennaio 2017, J.J. Heckman, Tim Kautz, Formazione e valutazione del capitale umano. L’importanza dei “character skills nell’apprendimento scolastico, Introduzione di Giorgio Vittadini, Fondazione per la scuola della Compagnia di San Paolo, Il Mulino, 2017. 

Professor Viganò, che cos’è “SPAperlascuola”?

SPAperlascuola è un ente che si occupa di valutazione delle risorse non cognitive degli studenti, allo scopo di intervenire sul percorso didattico ordinario e di progettare attività complementari mirate a favorirne la crescita. Negli ultimi mesi, senza averlo programmato ma semplicemente seguendo le circostanze, abbiamo iniziato ad occuparci anche di valutazione delle risorse di adulti al lavoro.  

Può  spiegarci meglio che tipo di attività fate nelle scuole?

La nostra peculiarità professionale viene impiegata in diverse modalità, in base alle esigenze delle scuole per cui lavoriamo; ci occupiamo di orientamento nelle terze medie, di riorientamento per studenti delle superiori in seria difficoltà di apprendimento, di formulazione di percorsi personalizzati, anche per studenti con Bes o Dsa. La nostra attività più significativa e più innovativa, però, è seguire i ragazzi di una classe dall’inizio alla fine di un ciclo (tre anni di media inferiore per esempio, o biennio delle superiori), con valutazioni cadenzate nel tempo per verificare la crescita — o anche l’involuzione — delle risorse non cognitive di ognuno; le nostre valutazioni vengono utilizzate dai consigli di classe, in costante dialogo con noi, per approfondire la consapevolezza del percorso didattico in atto con i ragazzi e per renderlo adeguato ai ragazzi reali che hanno di fronte.

E un esempio sul mondo del lavoro?

Stiamo lavorando con un’azienda che ci ha chiesto un’analisi comportamentale delle risorse umane di 40 dipendenti, da utilizzare in un percorso di profonda trasformazione dell’organizzazione interna.  

Come e perché è nata l’idea?

Qualche anno fa è iniziata una collaborazione, sostanzialmente spontanea, fra persone che, lavorando insieme nell’Istituto Scolastico Don Gnocchi — io facevo il preside, alcuni erano insegnanti, una giovane psicologa lavorava come insegnante di sostegno — hanno iniziato a prendere in seria considerazione una serie di studi teorici sul ruolo del sistema educativo e delle non cognitive skills nella formazione del capitale umano e nella crescita economica.

Da quali pubblicazioni siete partiti?

Eravamo entrati in contatto con questi studi attraverso una serie di pubblicazioni della Fondazione per la Sussidiarietà e diverse pubbliche conferenze del professor Vittadini. La grande scoperta è stata che i dati statistici ed i nessi interpretativi che ci venivano offerti ci aiutavano a leggere con più intelligenza la nostra esperienza di insegnanti e ci aprivano nuove prospettive di lavoro coi ragazzi. La cosa ci ha tanto affascinato da decidere, all’inizio di quest’anno, di costituire un ente al servizio delle scuole del territorio, statali e paritarie, con molte delle quali tra l’altro il Don Gnocchi intratteneva da tempo proficui rapporti di collaborazione. Nel frattempo io ho smesso di lavorare nella scuola e mi sono dedicato a tempo pieno a questa nuova professione, con la speranza di poter mettere a disposizione di insegnanti più giovani oltre quarant’anni di vita e di lavoro in mezzo ai ragazzi.

 

Valutare la crescita dei ragazzi non è una cosa semplice.. Nei giorni scorsi, a proposito di valutazione, hanno animato il dibattito le classifiche di Eduscopio. Nel panorama valutativo italiano, che è piuttosto desolato, Eduscopio emerge come l’unico tentativo dignitoso e interessante oggi esistente per dare indicazioni alle famiglie e agli studenti sul valore delle scuole. Ci chiediamo però: i criteri su cui Eduscopio si fonda sono sufficienti perché un giovane possa scegliere la scuola davvero adatta a sé?

Le classifiche di Eduscopio sono stilate sulla base di una rilevazione statistica sul successo, in università o nel lavoro, degli ex studenti di un singolo istituto scolastico; hanno perciò il pregio e il limite di ogni indagine statistica. Noi che lavoravamo al Don Gnocchi sapevamo benissimo, già da tanti anni, che i nostri studenti mediamente procedevano alla grande in università; li ascoltavamo quando ci venivano a trovare e li andavamo pure a cercare. Ciò che ci dicevano sui loro percorsi universitari ci aiutava molto a riflettere su come stavamo lavorando. Ci siamo fatti anche qualche indagine statistica in proprio. Che uno strumento dedicato ce lo confermi e diffonda pubblicamente i dati statistici, è un bel passo avanti.

 

Però molti affermano che Eduscopio non può essere uno strumento esauriente.

Certamente, se un nostro studente viaggia come un Freccia Rossa in università ma insieme vive da disperato, o da cinico, se cambia donna ogni due mesi o non sa vivere un rapporto significativo di amicizia, noi siamo convinti di aver fallito nel rapporto educativo con lui. Tra l’altro, io ho sempre ricordato ai miei colleghi che un bravo insegnante lo si vede quando è alle prese con un ragazzino che non ha nessuna voglia di studiare. In termini generali ciò significa che gli esiti in uscita vanno paragonati con una valutazione in entrata per essere realmente probanti; il che del resto è proprio quello che intendiamo fare con SPAperlascuola. In conclusione, concordo: le classifiche di Eduscopio forniscono un indicatore molto utile, ma non certo esauriente sul valore di una scuola.

 

Veniamo al tema delle soft skills, di cui si inizia a parlare sempre più diffusamente fra addetti ai lavori. Cosa sono, e perché oggi sono ritenuti così importanti?

Si intendono per soft skills quegli aspetti della personalità che prescindono dalle specifiche conoscenze di un giovane ma che nel contempo incidono profondamente sulle sue capacità di apprendimento e, viceversa, sono aiutati a crescere da un percorso didattico ben condotto. Noi usiamo un modello preso pari pari dagli studi di Vittadini, denominato big five competences, che considera questi fattori: l’energia nell’iniziativa personale; la capacità di intrattenere buoni rapporti interpersonali e di lavorare insieme ad altri; la consistenza morale nel portare a compimento un impegno assunto; l’equilibrio psicologico e l’apertura mentale.

 

Che cosa l’ha convinta della loro utilità?

Mi sono convinto di quanto queste risorse fossero importanti nel concreto lavoro di una scuola e di quanto fosse utile imparare a valutarle in modo non approssimativo, il giorno in cui mi sono reso conto che ogni insegnante, impegnato di fronte ai suoi studenti con la propria disciplina, si trova certo a riflettere su come introdurre una nuova questione di matematica in modo da renderla più accessibile ai ragazzi, ma si domanda anche su come condurre l’ora di lezione al fine di favorire la collaborazione fra i ragazzi o su come valutarli in modo da attutirne la tensione emotiva. Valutare le soft skills, insomma, significa esplicitare e circostanziare una dinamica già presente nel lavoro di un insegnante degno di tal nome.

 

Ma è possibile misurare con attendibilità delle qualità personali di tipo trasversale?

Innanzitutto occorre intendersi bene sul significato del verbo in questione. La possibilità di una misurazione esatta è ciò che consente di distinguere una realtà materiale da una immateriale; le soft skills non cadono sotto i sensi perciò non possono essere misurate col metro o con la bilancia. E’ però possibile predisporre delle verifiche (uso volutamente un tipico termine scolastico) che consentano una valutazione rigorosa del livello di capacità relazionali o di equilibrio psicologico di un ragazzo. Noi siamo partiti utilizzando strumenti di valutazione elaborati da chi se ne intendeva molto più di noi; lavorando insieme li abbiamo adattati alle esigenze dei contesti in cui ci siamo trovati ad operare e ne abbiamo pure inventati di nuovi e continuiamo a discutere fra di noi del nostro modo di lavorare e delle correzioni che ci conviene apportare.

 

Provi a spiegarci meglio.

Una semplice analogia: ogni insegnante assegna un voto numerico ad una verifica e valuta con un voto il percorso scolastico di un anno. Quel numero non corrisponde certo ad una misurazione esatta del valore di quel ragazzo, costituisce solo un modo approssimativo di condensare un giudizio ben più ampio ed articolato. Ogni insegnante, al contempo, conosce bene l’utilità di quella valutazione approssimativa per introdurre uno studente ad una comprensione più facile ed immediata del valore di una sua verifica o del suo intero anno scolastico. Esattamente la stessa cosa si può dire per una valutazione numerica espressa su una soft skill.                                                                                                     

 

In teoria funziona così, però sappiamo che nella pratica spesso il voto viene percepito dallo studente come giudizio globale sulla sua persona. E talvolta c’è in questo anche una responsabilità del docente.

Mi preme infatti aggiungere un rilievo che considero decisivo a proposito della valutazione delle risorse di uno studente, cognitive o non cognitive che siano. Nel corso di oltre vent’anni di lavoro ho presieduto oltre mille scrutini ed ogni volta ho iniziato ricordando ai colleghi che i voti che ci apprestavamo ad assegnare non erano frutto di misurazioni metriche, perciò erano inevitabilmente soggetti al rischio dell’errore, con possibili gravi ripercussioni sul cammino scolastico di un ragazzo. Il metodo migliore per ridurre drasticamente il nostro margine d’errore — aggiungevo — è ascoltarci e correggerci con attenzione ed umiltà: la stima che ci lega è la miglior garanzia per giungere a valutazioni adeguate.

 

Immagino che questo, quindi, sia anche il metodo di SPAperlascuola.

Infatti è così. La grande risorsa di SPAperlascuola, che senza presunzione ci distingue da tanti enti che oggi operano nel campo dell’orientamento, è che lavoriamo insieme, con competenze ed esperienze professionali diverse. Per quel che ne so, normalmente di queste cose si occupa esclusivamente lo psicologo; fra di noi c’è una  psicologa,ma c’è anche chi ha competenze pedagogiche, chi conosce i meccanismi di gestione aziendale, chi sa di sociologia e chi, come il sottoscritto, ha come unica risorsa gli anni trascorsi in mezzo ai ragazzi. 

 

Insomma, sarebbe necessario un modo diverso di fare scuola perché accanto alle conoscenze — sempre necessarie — si sviluppino e maturino le qualità personali “trasversali” dei ragazzi?

Chiedo scusa, ma anche qui è necessario chiarire bene i termini della domanda che mi ponete. L’educazione di un giovane è un’esperienza di vita che ha assoluto bisogno di adulti disposti ad assumersi la responsabilità di guidarla. Ogni adulto, nella misura in cui si trova ad entrare in rapporto con un giovane, ha il dovere di curarne l’educazione. I genitori svolgono la loro azione educativa in un contesto, gli insegnanti in un altro, chi svolge un’attività professionale in un altro ancora. Avendo vissuto il mio ultimo hanno di insegnamento nel corso professionale per aiutocuoco di In-Presa, ho avuto la possibilità di toccare con mano la straordinaria risorsa educativa costituita da cuochi e maître professionisti, esperti del proprio lavoro ed orgogliosi di introdurvi giovani, mediamente indolenti e dispersivi, come oggi sono la maggior parte di loro.

 

Quindi?

In questo panorama variegato di responsabilità condivise, la scuola ha un compito specifico, quello di accompagnare la maturazione delle risorse cognitive, cioè di insegnare a leggere, a scrivere, a far di conto; ha il compito di far incontrare Dante, Caravaggio e Sofocle, di insegnare cos’è una cellula o come si cucinano gli spaghetti alla carbonara. Guai se la scuola pretende di fare tutto; le soft skills non sono un secondo contenuto di insegnamento. Il problema, di per sé, non è nemmeno di “un modo diverso di fare scuola”; si tratta precisamente di fare scuola con miglior cognizione di ciò che si sta facendo. 

 

Dunque è una questione di maggiore consapevolezza di ciò che già è — o dovrebbe essere — il lavoro del docente? 

La questione è quella che ho già detto: discipline scolastiche bene insegnate sono fondamentale occasione di maturazione delle risorse non conoscitive e viceversa. Resta il fatto, tutt’altro che secondario, che una consapevolezza criticamente fondata del ruolo che le soft skills giocano nel processo di apprendimento, la possibilità di valutarle in modo non approssimativo e la cura di un modo di lavorare coi ragazzi che ne favorisca l’emergere, consentono di percorrere un cammino, insieme educativo e didattico, più efficace. Il lavoro di SPAperlascuola si colloca esattamente a questo livello.

 

Quando incontrate un ragazzo che, fatte le dovute verifiche, vi rendete conto essere molto debole quanto a soft skills, che tipo di azione mettete in campo per aiutarlo?

Questa è una domanda molto interessante, perché mi impone di mettere a fuoco la natura delle soft skills. Le facoltà di cui stiamo parlando costituiscono dei fattori connaturati all’io e sono tutte espressione di quell’esigenza di rapporto con l’infinito che costituisce il contenuto qualificante del cuore dell’uomo. Nel nostro lavoro, le trattiamo in modo analitico, utilizzando modelli utili ad una valutazione rigorosa, ma avendo nel contempo chiara consapevolezza che siamo di fronte all’io di una persona, cioè a quel livello della realtà più chiaramente connotato da un fondo di mistero, ultimamente non conoscibile e, soprattutto, incancellabile. Capita, eccome, di imbattersi in ragazzi “molto deboli quanto a soft skills“; questo non significa certo che ne siano privi, ma che soffrono di una debolezza riconducibile al loro percorso educativo. Non è possibile che un ragazzo manchi di risorse, succede invece di frequente che un cattivo rapporto con gli adulti abbia prodotto una debolezza affettiva, la quale a sua volta ha tarpato l’emergere di risorse connaturate.

 

E cosa fate in questo caso?

Che tipo di azione mettere in campo? Non si tratta certo di attivare procedure codificate, come sempre in campo educativo, e quindi come sempre nel campo delle soft skills, ma di individuare un contesto di rapporti da cui partire per ricostituire un legame affettivo significativo; nulla vieta che a questo scopo possa risultare molto utile l’utilizzo di strumenti procedurali codificati. Per la mia esperienza comunque, la partita si decide tutta nella mossa iniziale: di fronte ad un ragazzo “sfasciato”, cioè a prima vista totalmente determinato dalle proprie reazioni emotive, incapace di un atto di libertà, la prima mossa di un adulto è la consapevole certezza che quel ragazzo non coincide con ciò che appare di lui; anche lui, come tutti, ha risorse potenziali che qualcuno deve portare alla luce e rimettere in azione. Si parte insomma dalla certezza di avere di fronte un figlio di Dio; nel mestiere di insegnante questa certezza fa la differenza: chi parte con un dubbio è destinato al fallimento certo.

 

Non è certo un modo usuale di guardare i ragazzi, vorrei dire…

Conosco bene, per averlo sperimentato tante volte sulla mia pelle, quanto sia facile, nella quotidianità del lavoro di un insegnante, l’insinuarsi del tarlo dello scetticismo; di fronte ad un ragazzo “difficile”, che risponde a qualunque proposta con atteggiamento negativo, oppositivo o abulico che sia, si comincia a lasciarlo fuori dei confini della propria attenzione e della propria iniziativa educativa; non si tratta, in genere, di una scelta consapevole, è semplicemente una resa, frutto di quella scarsa vigilanza che costituisce il vero nemico nel nostro mestiere.

 

In questi casi?

In questi casi, il lavoro di SPAperlascuola si fa particolarmente utile: il nostro compito è accorgerci di ciò che sta succedendo e di andare a ricercare barlumi di risorse attive per facilitare, negli insegnanti, la ripresa di un’iniziativa carica di speranza nei confronti di quel ragazzo.





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