ISRAELE E PALESTINA/ Il patto tra Netanyahu e i sauditi rimescola le carte

- Paolo Alli

In Israele l'equilibrio dello status quo tra Netanyahu e Abu Mazen è fragilissimo. Gerusalemme è preoccupata del'Iran, i palestinesi sono divisi al loro interno. PAOLO ALLI

netanyahu_israele_ebrei_lapresse_2015 Israele, accordo con l'Onu (LaPresse)

Sta destando curiosità la vittoria di Avi Gabbay nelle primarie laburiste israeliane, svoltesi lunedì 10 mentre mi trovavo a Gerusalemme nel mio ruolo di presidente dell’assemblea parlamentare Nato. Il leader uscente, Herzog, è stato sconfitto da un personaggio con una breve esperienza politica, iniziata peraltro come ministro nel governo conservatore di Netanyahu. Gabbay come Macron? Personalmente lo paragonerei piuttosto a Renzi, dal momento che non ha vinto le elezioni nazionali ma, appunto, le primarie laburiste. Probabilmente si tratta oggi dell’unico elemento potenzialmente in grado di introdurre una novità: non a caso la sua elezione sta cominciando a suscitare preoccupazioni in ambiente conservatore. Una novità che potrebbe smuovere una situazione caratterizzata dal più totale immobilismo. Infatti oggi le posizioni appaiono più che mai radicalizzate, e il sospetto che il mantenimento dello status quo, alla fine, vada bene a tutti i contendenti è più che legittimo. 

Per anni, infatti, non si sono affacciate all’orizzonte leadership in grado di cambiare in modo sostanziale gli equilibri consolidati: all’abilissimo ed eterno Netanyahu continua a contrapporsi l’anziano Abu Mazen, sempre più indebolito all’interno del proprio popolo. 

E ancora una volta ho constatato sul campo come, a livello sociale, israeliani e palestinesi si sentano ormai definiti dal conflitto. L’immagine del muro, così fisicamente visibile dappertutto, sta ormai nella testa della gente come dimensione esistenziale del vivere quotidiano. Tra le giovani generazioni, in entrambe le fazioni, convivono l’intransigenza di una parte, l’indifferenza di un’altra e il desiderio di andarsene di un’altra ancora.

Ma se il conflitto israelo-palestinese sembra oggi derubricato a guerricciola di provincia, dopo l’esplosione delle polveriere siriano-irachena e libica, esso è comunque sempre percepito nella regione come la madre di tutte le guerre. Perciò non si può abbassare l’attenzione su questo scenario, come dimostra il recente attacco terroristico palestinese sulla spianata delle moschee.

Israele è concentrata sull’Iran e sulla sua crescente influenza nella regione. La strategia di Teheran è molto chiara: creare un doppio corridoio per accerchiare l’Arabia Saudita, la Giordania e Israele, a nord attraverso l’Iraq, la Siria di Assad e il Libano degli Hezbollah, per chiudersi nella striscia di Gaza di Hamas; a sud attraverso Oman e Yemen. 

L’Iran è oggi una potenza legittimata, dopo l’accordo sul nucleare, agli occhi della comunità internazionale e possiede missili balistici in grado di raggiungere Gerusalemme. Questo ha convinto Israele a cercare — pur nell’estrema diffidenza rispetto a tutti gli interlocutori — intese che fino a poco tempo fa apparivano improbabili se non impossibili: con la Turchia, con la quale è stato firmato un accordo per la ripresa dei rapporti; con la Russia, che ormai ha le proprie truppe a 200 km dalla capitale; persino con l’Arabia Saudita, nemico storico accomunato oggi dalla ferma volontà di Riyad di limitare l’influenza sciita nella regione. Unico punto certo, il solido legame con l’Egitto, che permette ad entrambi di governare la difficile frontiera del Sinai e di tenere sotto controllo le mosse di Hamas nella striscia di Gaza.

In questo contesto, Netanyahu ha incassato l’importante sostegno di Trump che, sia a Gerusalemme sia a Riyad ha tuonato contro l’Iran, ma ha bisogno di ulteriori alleanze. Questo spiega l’accoglienza a dir poco straordinaria riservata pochi giorni fa al primo ministro indiano Modi, oltre che all’ormai consolidato rapporto con la Cina, mentre estrema diffidenza è riservata all’Europa, soprattutto dopo le prese di posizione dell’Europarlamento a favore della soluzione a due stati.

Sul fronte palestinese, la partita è legata alla leadership interna. Hamas controlla completamente la situazione a Gaza mentre Abu Mazen, ai minimi storici della propria popolarità, farebbe carte false per mettere nell’angolo la stessa Hamas. La recente decisione di Israele di bloccare le forniture di energia elettrica e di carburanti a Gaza, è stata tacitamente avallata anche dallo stesso Abu Mazen, che ha in comune con Netanyahu la necessità di indebolire Hamas agli occhi della popolazione palestinese. La situazione esplosiva nell’area (2 milioni di persone ammassate in 370 chilometri quadrati) viene tenuta sotto controllo grazie alle forniture di benzina da parte dell’Egitto e favorendo la continuazione dei finanziamenti dal Qatar. E non vi è dubbio che la profonda divisione interna alla popolazione palestinese, con Gaza che ha eletto un proprio governo, costituisca un grande favore a Israele. 

Tutto ciò spiega il fatto che non vi sia nessuna reale intenzione di modificare, almeno nel breve-medio periodo, i fragilissimi equilibri. Le dichiarazioni sia israeliane, sia palestinesi, di apprezzamento nei confronti di Trump e della sua proposta di mediazione appaiono più formali che sostanziali.

Né aiutano i numerosi ma velleitari pronunciamenti di organismi internazionali a favore della causa palestinese, che in realtà costituiscono unicamente una forma di legittimazione per la debole leadership di Abu Mazen. Il Parlamento europeo, molti Paesi occidentali, l’Unesco approvano risoluzioni a favore dei palestinesi che certamente mettono a posto la coscienza di molti ma che hanno l’effetto opposto, aumentando inutilmente le tensioni, portando acqua al mulino di Hamas e dando tutte le ragioni ad Israele di radicalizzare ulteriormente le proprie posizioni. 

La realtà è che nella situazione estremamente complessa del Medio oriente non esistono soluzioni facili, tanto più in un quadro ulteriormente complicato da interferenze e pressioni di situazioni e attori esterni: la Russia, l’Arabia Saudita, l’Iran, la complessa realtà del Golfo, l’avvicinarsi delle grandi potenze orientali — Cina e India —, l’oscillante Turchia e il debole Egitto, le instabilità in Siria e Libia alle porte.

Auguriamoci che l’emergere di un personaggio nuovo come Gabbay possa portare elementi nuovi e positivi. Nel frattempo l’attentato di Gerusalemme sembra un lugubre monito alla comunità internazionale perché non abbassi la propria attenzione e non cerchi scorciatoie e semplificazioni inevitabilmente destinate a risolversi in nuovi fallimenti.





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