FINANZA & MERCATI/ La grande balla sul referendum italiano

- Paolo Annoni

Al referendum costituzionale vengono attribuiti anche effetti sull’economia e sui mercati che, spiega PAOLO ANNONI, non sembrano essere assolutamente fondati

Padoan_BroncioR439 Pier Carlo Padoan (Lapresse)

I timori sull’esito del referendum sulla riforma costituzionale previsto entro la fine dell’anno sarebbero la causa delle sfortune finanziarie italiane; il ministro dell’Economia Padoan ieri mattina sottolineava come l’esito del referendum avrà un “grande impatto sull’economia”, alludendo al referendum perfino come possibile causa delle perplessità del mercato sul piano di salvataggio di MontePaschi. Nel corso della giornata anche l’ambasciatore americano in Italia interveniva per perorare la causa del sì perché “il no al referendum sarebbe un passo indietro per gli investimenti stranieri in Italia” e perché “63 governi in 63 anni non danno garanzia”; pazienza se con un bel po’ di questi governi l’Italia ha fatto il miracolo economico.

L’ultima volta che si è assistito a una simile concentrazione di pressioni sull’Italia è stato nel 2011 quando l’ultimo primo ministro eletto, Berlusconi, veniva costretto alle dimissioni e si apriva una fase, quella dell’austerity, che regalava all’Italia, e solo a lei, un anno in più di crisi drammatica dopo quella del 2008; un giro di austerity che cambiava serie statistiche vecchie di decenni, quelle sul traffico autostradale per esempio, e che costringeva l’Italia, e solo lei, a un altro giro di stop dopo la crisi Lehman. Il sistema istituzionale era per la cronaca talmente rigido che in meno di sei mesi l’Italia inseriva, su pressioni europee, il pareggio di bilancio in Costituzione, senza alcun ricorso alla volontà popolare, consegnandosi per sempre all’Europa. Oggi tutti si scagliano contro l’austerity e persino contro le ingerenze estere nella politica italiana che cinque anni fa venivano invocate e che ci hanno portato questo grande regalo di nome austerity. Le pressioni dei leader europei, francesi e tedeschi in primis, per far ingoiare all’Italia l’amarissima medicina dell’austerity nel 2011 sono ormai nei libri di storia; non è stata ovviamente nemmeno una medicina, ma una dose di veleno come sappiamo con certezza oggi.

In ogni caso vorremmo porre l’attenzione su due questioni. La prima è che questo interesse sull’Italia sembra veramente singolare. Il referendum italiano, a cui il governo ha deciso liberamente di legarsi, avviene mentre il mondo si interroga sull’andamento delle elezioni presidenziali americane, con il candidato dell’establishment di cui non si conoscono nemmeno le condizioni di salute, oltre alle simpaticissime questioni aperte sulla conduzione delle primarie democratiche e lo scandalo sulle mail classificate lasciate su server privati. Un candidato che in politica estera si porrà sulla stessa linea, eccepibile (Egitto, Libia, Siria, ecc.), del predecessore e che non sembra particolarmente intenzionata, e finanziata, a lisciare il pelo della finanza spericolata.

L’Italia quasi scompare, poi, se messa in relazione alle prossime elezioni di Austria, Francia, Olanda e Germania dove i movimenti “di destra” e “anti-euro” sembrano un po’ più “decisi” del nostrano Movimento cinque stelle. Questo a tre mesi dalla Brexit che avrebbe dovuto mettere in ginocchio l’Inghilterra i cui dati economici invece continuano a essere mille volte migliori dei nostri e che, tra l’altro, si candida a essere il porto sicuro in cui rifugiarsi dalle enormi incertezze economico-politiche continentali e forse persino da quelle americane. Il referendum italiano sembra davvero l’ultimo problema.

La seconda questione è che il problema bancario italiano, così come quello dello “spread”, sono in ultima analisi un effetto della crescita che manca da quasi dieci anni e che non si riesce ad agganciare nonostante le “riforme”. Negli ultimi anni abbiamo assistito a riforme che fino a cinque anni fa sarebbero state lunari annunciate in giorni e approvate in settimane. È il caso delle centenarie popolari, che continuano a essere difese nel resto del globo, abolite praticamente in una settimana tra rumour di insider trading, o quella del lavoro che ha spazzato via per sempre il contratto a tempo indeterminato per i privati senza, tra l’altro, neanche un giorno di sciopero; lo stesso vale per la riforma Fornero.

Più che una questione di efficienza e velocità dei processi ci si dovrebbe a questo punto interrogare sul merito delle riforme e magari cercare di capire come mai la macchina burocratica statale sia rimasta praticamente intatta con un peso contrattuale ed elettorale cresciuto esponenzialmente o perché l’Italia non riesca a farsi valere in sede europea con un sistema politico devastato e sfilacciato di cui il “premier” non può che essere espressione anche se controllasse un parlamento blindato.

Le riforme istituzionali su cui si voterà non sembrano il cuore del problema “Italia” se semplicemente permettono di fare più velocemente le riforme sbagliate o quelle che gli altri ci obbligano a fare ovviamente per i loro interessi.





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