DIETRO LE QUINTE/ L’exit strategy di Squinzi e Azzi

- Gianni Credit

Giorgio Squinzi e Alessandro Azzi sembrano essere molto critici verso l’operato del Governo e di altri importanti rappresentanti istituzionali italiani. L’analisi di GIANNI CREDIT

squinzi_neroR439 Foto: InfoPhoto

Un anno fa Confindustria, Abi, Cgil, Cisl, Uil e numerose altre rappresentanze di imprese e lavoratori si ritrovarono a uno stesso tavolo di emergenza nazionale: unite, sostanzialmente, dalla richiesta al governo di affrontare in tempi rapidi e con misure efficaci la crisi montante del debito sotto attacco speculativo e del ciclo recessivo. «Fate presto», titolava il Sole 24 Ore – quotidiano di Confindustria – cui il presidente della Repubblica, Napolitano, accordava per iscritto la sua approvazione. Quello che è accaduto dopo è ancora cronaca e attualità: il governo Berlusconi si è mostrato oggettivamente non all’altezza della gravità della situazione e la guida del Paese è passata dalle mani della politica a quelle di due supertecnici: Mario Draghi a Francoforte e poi Mario Monti a Roma.

Questi ultimi – giusto o sbagliato – hanno “fatto” quanto potevano e ritenevano per stabilizzare lo spread e contribuire alla stabilizzazione dell’eurozona. Sotto la pressione rigorista della Germania hanno, altrettanto oggettivamente, subordinato a questa priorità ogni altro profilo della vita del Paese: dagli stimoli alla ripresa alla stessa coesione sociale (anche se è vero che il “caso esodati” o le decine di imprenditori suicidi restano lontani dall’estensione e dall’intensità della crisi socio-economica in Grecia o perfino in Spagna).

Un anno dopo, comunque, non è affatto casuale che – una stessa domenica estiva – il nuovo leader della Confindustria (ancora affiancato dal leader della Cgil) contesti apertamente il governo e solleciti il ritorno della politica: proprio quando i due banchieri centrali italiani (Mario Draghi e Ignazio Visco) occupano le prime pagine dei due maggiori quotidiani nazionali (il moderato Corriere e la progressista Repubblica). Draghi e Visco difendono il loro lavoro fatto e le loro ricette, all’indomani di un vertice europeo che sembra comunque aver chiuso una fase.

Sugli stessi grandi quotidiani campeggiano, da qualche giorno, le inserzioni a pagamento della Federcasse, la centrale delle banche di credito cooperativo presieduta da Alessandro Azzi: lombardo come Giorgio Squinzi e recente king-maker della riconferma di Giuseppe Mussari alla presidenza dell’Abi. Le Bcc lanciano un manifesto per una nuova «finanza democratica» chiedendo concretamente di poter tornare a fare il loro mestiere di sempre: le banche di territorio al servizio delle imprese di territorio per il benessere delle società dei territori (Basilea 3 proprio non va e su questo banchieri e imprenditori sono per una volta d’accordo; così come industriali e sindacati – per una volta – sono d’accordo nel dire che la “non politica economica” del governo Monti-Passera non va).

Se gli industriali non assegnano al governo la sufficienza, il credito cooperativo non è molto lontano: e si tratta di due grossi pezzi dell’Azienda-Italia che per prassi dialogano con i governi in carica e che raramente si sono ritrovati in netta opposizione politico-culturale rispetto a personaggi come Monti, Draghi, Visco. Per questo la semplice evidenza di cronaca appare politicamente più significativa del merito delle questioni: di qualche miliardo “cresci Italia” in più o in meno, di una spending review più o meno drastica, di un comma in più o in meno da limare sul nuovo articolo 18.

Quando Squinzi – con Susanna Camusso – dice no alla “macelleria sociale” esprime un “sentire” che va al di là del terreno delle relazioni sindacali o dello sviluppo della riforma del lavoro. Lo stesso Azzi parla di “credit crunch”, ma si percepisce chiaramente che lo fa in termini simbolici per conto di un milione di soci delle Bcc sparsi in tutta la penisola: artigiani, commercianti, piccole imprese, cooperative, anche piccoli enti locali. C’è un Paese che non ce la fa più, ma – forse più e prima ancora – non ce la fa più a vedere che le cose procedono “tecnicamente”: e non per pregiudizio o disistima per i tecnici, ma perché dopo anni di shock e di compiti a casa, una democrazia europea consolidata, un sistema-Paese non privo di numeri sul piano dell’intraprendenza economica, vuole rimettersi in gioco.

Lo ha già fatto varie volte: l’ultima è stata dopo i terribili anni ‘70, anche allora tutto sembrava irreversibilmente compromesso. E allora fu l’onda lunga dell’Italia “sommersa” – molto più della magistratura all’inizio degli anni ‘90 – ad archiviare la Prima Repubblica. Anche oggi, in fondo, la domanda urgente di una “nuova politica” viene dall’Italia “del lavoro”, quella onnicomprensiva dell’articolo 1 della Costituzione.

Non se la prendano i tecnici: a Draghi e Monti il Paese sa di dover essere grato (anche se forse più per quello che hanno fatto dal 2008 in poi che per quello che hanno detto o fatto fino al 2008). Chi vuol fare politica (magari lo stesso Monti) deve invece attrezzarsi in fretta: le vacanze sono finite. Anzi, sta cominciando già in estate l’anno scolastico che si concluderà in primavera con l’esame elettorale (anche in Germania, dopo le presidenziali Usa di novembre).

Le materie sono quelle di sempre, ma i programmi di studio non sono definiti e qui sta in fondo l’eterno “bello della politica”: quello che vent’anni fa ha fatto emergere un imprenditore come leader del Paese, quello che oggi difficilmente consegnerà l’asso pigliatutto a un “nuovo Berlusconi”. Tanto meno a giornali-partito.





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