IL CASO/ 2662, il “modello” che mette in crisi l’Italia

- int. Paolo Preti

Per PAOLO PRETI, il cuore del problema dell’industria in Italia è la capacità di spesa degli italiani, che però scelgono sempre di più di risparmiare perché non hanno fiducia nel futuro

industria-fabbrica-operaio-pil-produzione Economia e Pil (Infophoto)

Il fatturato interno dell’industria italiana continua a essere in profondo rosso. Dall’ultimo rapporto Istat relativo al mese di novembre risulta un dato pari al -1,2% rispetto a ottobre e -2,8% rispetto a novembre 2013, mentre la media degli ultimi tre mesi diminuisce dello 0,9% rispetto ai tre mesi precedenti. Il fatturato estero invece continua a crescere, segno del fatto che le nostre imprese sono sane, ma gli italiani non spendono. Intanto con l’Investment compact il governo italiano ha deciso di lanciare una società per azioni per ristrutturare le imprese in crisi: la dotazione di capitale dovrebbe essere pari a un miliardo di euro. Ne abbiamo parlato con il professor Paolo Preti, direttore del master Piccole imprese della Sda Bocconi.

Le misure del nostro governo possono essere in grado di rilanciare l’industria italiana?

Le decisioni del governo sono positive, ma non risolvono il problema. Il mercato interno è ancora fermo, mentre l’export continua il proprio trend positivo. Stando ai dati dell’ufficio studi di Confartigianato, 230mila Pmi nel corso dell’anno hanno aumentato l’export del 3,4%, confermando quindi le potenzialità delle esportazioni delle piccole imprese. È un dato particolarmente importante perché l’insieme delle esportazioni italiane è aumentato ma “solo” dell’1,7%.

Qual è il significato di questi dati?

Questi dati documentano che le Pmi sono brave a esportare i loro prodotti, addirittura in una percentuale quasi doppia rispetto alla media dell’aumento delle esportazioni complessive. L’export si conferma come la leva strategica dell’economia del Paese, con una sostanziale stazionarietà del mercato interno che stenta ancora a ripartire. Le prese di posizione del governo vanno nella giusta direzione, ma c’è ancora molto da fare.

Che cosa occorre fare per affrontare il problema alla radice?

Innanzitutto occorre identificarlo correttamente: il cuore del problema dell’industria in Italia è la capacità di spesa degli italiani. Non credo che ci sia una leva su cui le imprese italiane possono agire, il problema sono i portafogli dei consumatori. Gli italiani hanno ripreso a risparmiare, e quindi le condizioni del Paese non sono peggiori rispetto all’anno scorso. La raccolta dei fondi l’anno scorso è notevolmente aumentata, secondo alcune fonti dieci milioni di italiani vivrebbero in povertà relativa, ma è altrettanto vero che il risparmio è ripartito. Questa capacità di spesa degli italiani non si dirige però verso i consumi, ma verso il risparmio.

E quindi?

Ciò se da una parte sottolinea in positivo il miglioramento delle condizioni relative degli italiani, dall’altra dirigendosi verso il risparmio, forse per mancanza di fiducia, mantiene le condizioni del mercato interno in una sostanziale debolezza. Finché non si risolve questo problema, per l’impresa italiana sarà difficile vendere sul mercato interno.

 

Secondo lei, si tratta soltanto di un problema economico?

Non è così. Molti dicono che i ragazzi italiani non si sposano perché non ci sono lavoro, reddito e occupazione. In realtà il vero problema è quello che io chiamo il “modello 2662”.

 

Che cosa sarebbe?

Sessant’anni fa due adulti mettevano al mondo e mantenevano sei figli. Oggi sei adulti, cioè due genitori e quattro nonni, non sono in grado di mantenere due figli. Il problema non è solo il reddito ma la fiducia. Un tempo c’era fiducia nel futuro, e quindi la vita aveva seguito. Oggi a mancare non sono tanto i soldi nelle tasche degli italiani quanto la fiducia nei cuori delle persone. La conseguenza è che la gente non si sposa e non fa figli. La stessa cosa può valere per i consumi. Adesso che c’è una maggiore tranquillità in termini di reddito, non c’è fiducia nel futuro e quindi si preferisce risparmiare piuttosto che spendere.

 

(Pietro Vernizzi)





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