LA SCALA/ Fischi a Pagliacci, ma Cavalleria commuove

- Luca Belloni

Dopo trent’anni il dittico torna alla Scala con Daniel Harding alla direzione e un allestimento curato da Mario Martone. Fischi e applausi alla Prima. La recensione di LUCA BELLONI

TeatroAllaScalaMilanoR400 Questa sera il Don Giovanni al Teatro alla Scala di Milano

L’accoppiata Cavalleria-Pagliacci è uno dei classici delle programmazioni liriche ad ogni latitudine.
Dopo trent’anni di assenza il dittico è tornato alla Scala in un allestimento curato da Mario Martone (regia), Sergio Tramonti (scene), Ursula Patzak (costumi), Pasquale Mari (Luci) e Daniel Harding (direzione d’orchestra).

La scelta di invertire il consueto ordine di esecuzione mettendo Pagliacci in prima posizione ha avuto certamente il pregio di far iniziare la serata con il Prologo di Leoncavallo, espressione sintetica e potente della poetica verista che, in maniera diversa, informa di sé entrambe le pagine.

Purtroppo  subito dopo l’inizio a sipario chiuso, magistralmente interpretato da Ambrogio Maestri, lo spettacolo ha mostrato le prime incongruenze.  I cantanti spesso si trovavano spaesati nella scenografia da suburbio pasoliniano e la regia di Martone non ha certo brillato per inventiva e coerenza con il dettato musicale.

La tirata iniziale di Canio fatta in barcaccia non ha davvero molto senso (è una velata, quasi inconsapevole minaccia alla moglie Nedda ed è a lei, secondo logica, che dovrebbe rivolgersi) e così pure le molte situazioni che il regista ha voluto collocare fuori dal palcoscenico, non ultima l’uccisione finale di Silvio, amante di Nedda, freddato nella prima fila del teatro.

Va sottolineata la prova decisamente sottotono di José Cura, prova salutata, alla fine dello spettacolo, da una selva di boati di disapprovazione riservati peraltro anche a Nedda/Oksana Dyka e a Daniel Harding.

A sancire la schizofrenia della serata Cavalleria rusticana si è presentata con regia, scene e costumi assolutamente tradizionali e, va pur detto, con un cast  di canto in ben altra condizione di forma.

La Santuzza di Luciana D’Intino ha svettato su entrambe le compagini per potenza vocale ed intensità drammatica.  Buono anche il Turiddu di Salvatore Licita, a nostro parere ingiustamente contestato alla fine. 

Nell’opera mascagnana il direttore d’orchestra ha dato una prova decisamente migliore rispetto a Pagliacci ed è stato accolto da convinti applausi.
Contestazioni invece per Martone che, volendo provocare, è riuscito verosimilmente a confondere il pubblico scaligero.

Insomma una serata certamente non noiosa ed animata da contrastanti passioni (anche la diretta del nostro quotidiano non ne è andata esente) che ha testimoniato, e oggi ne abbiamo davvero bisogno, che ci si può ancora accendere, commuovere ed esaltare quando si ha la fortuna di incontrare una grande opera d’arte eseguita con rigore e partecipazione sincera.

 

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