LA SCALA/ La favola della donna senz’ombra, il tesoro di Richard Strauss

- Giuseppe Pennisi

GIUSEPPE PENNISI ci parla del nuovo allestimento di “Die Frau ohne Schatten” (“La Donna Senz’Ombra”) di Hugo von Hofmannsthal e Richard Strauss, in scena al Teatro alla Scala di Milano

donna_ombra_r400 Un momento de La Donna SenzOmbra

Il prossimo spettacolo in programma a La Scala è  uno dei più importanti dell’anno: un nuovo allestimento di “Die Frau ohne Schatten” (“La Donna Senz’Ombra”) di Hugo von Hofmannsthal e Richard Strauss. L’allestimento è co-prodotto con la Royal Opera House di Londra ed ha la regia di Claus Guth, uno dei più apprezzati metteurs en scène tedeschi che ha di recente trionfato nella dissacrante edizione della trilogia Mozart Da Ponte che ha realizzato al Festival di Salisburgo. La direzione musicale è di Marc Albrecht, direttore stabile sia dell’opera e della sinfonica olandese e che ha già diretto  “Die Frau ohne Schatten “nel tempio straussiano della Semperoper di Dresda. Cast di altissimo livello: Johan Botha, Emily Magee, Michaela Schuster, Samuel Youn, Mandy Fredrich, Maria Radner.

“Die Frau ohne Schatten“ è una delle opere più importanti del Novecento ed il lavoro più amato dallo stesso Richard Strauss che avrebbe voluta dirigerla in tarda età quando si scherniva alle frequenti offerte di dirigere “Der Rosenkavalier” (“Il Cavaliere della Rosa”) dicendo che 78 anni era troppo lunga e faticosa, ma suggerendo che avrebbe ben preso la bacchetta per “Die Frau” (che dura venti minuti di più di “Rosen”). In cento anni è la quarta volta che approda alla Scala (dove si è vista due volte lo stesso allestimento, negli Anni Ottanta e Novanta, curato da Jean Pierre Ponnelle). In Italia, che io ricordi, è stata messa in scena solamente a Firenze oltre che a Milano; l’allestimento scaligero di Ponnelle all’inizio degli Anni Novanta ed uno per la regia di Yannis Kokkos nel 2010.

L’attesa di un melomane vagante e di un appassionato dei lavori di Strauss come il vostro “chroniqueur” è principalmente per la regia di Guth, che, vista la trilogia Mozart-Da Ponte, sarà certamente molto personale. E la regia è uno dei nodi più difficili dell’opera. Non che l’esecuzione musicale complessa: una partitura sontuosa che richiede un doppio coro, un coro di voci bianche e 15 solisti.

Il libretto è una favola che può sembrare molto complicata. Per comprenderla non è necessario addentrarsi nelle molteplici fonti e nei simboli dei numerosi personaggi, di cui uno solo ha un nome (Barak, il tintore) mentre gli altri sono indicati per la loro funzione o per una loro caratteristica (L’Imperatore, l’Imperatrice, la Donna, la Nutrice, Il Messaggero degli Spiriti, il Guardiano del Tempio, lo Storpio, il Cieco, il Monco e così via). L’apologo è, però,  lineare: un uomo e una donna non sono tali se non hanno figli – i quali, a loro volta, sono il nesso tra passato e futuro. Senza figli, l’amore è unicamente sesso e la coppia resta un eterno presente senza significato (e senza storia). La vera gioia si ha, però, unicamente al termine di uno percorso iniziatico pieno di dolori. Paternità e maternità, da un canto, e gioia grazie alla sofferenza, dall’altro, colpiscono tutti.  

Le due coppie al centro della vicenda sono, da un lato, il giovane e bell’Imperatore e la giovane e bella Imperatrice, e, dall’altro, un povero tintore con tre fratelli disabili e la di lui donna. La prima coppia non può generare perché l’Imperatrice non ha un’ombra (quindi non è una donna completa). L’altra perché troppo stanca e stressata  dalle fatiche quotidiane. L’Imperatrice riesce, con un sotterfugio suggeritole dalla sua mefistofelica nutrice, a carpire l’ombra dalla donna, creando, però, a quest’ultima ed al suo Barak sofferenze ancora più gravi di quelle che avevano nella loro condizione precedente. La truffa – dell’ombra – non salva neanche la coppia imperiale, perché avviene troppo tardi. La salvezza viene dalla comprensione del dolore che Imperatore e Imperatrice hanno causato alla donna senz’ombra e dal tentativo di aiutare Barak e sua moglie. La compassione dei Cieli a questo punto non può non intervenire: risolvere i problemi di ambedue le coppie e trasformare il coro dei bambini non nati con cui termina il primo atto in un coro di bambini che stanno nascendo nel grandioso finale.

Tutto avviene in un mondo mitico che richiede nel primo e nel terzo frequenti cambiamenti di scena a sipario aperto o solo leggermente abbassato mentre in orchestra si avvicendando (tra un quadro e l’altro) sette interludi, tutti differenti pur se tutti sullo stessa cellula musicale. Non solo, è necessario un palcoscenico a due livelli e nel terzo atto nei rapidi avvicendamenti ci vorrebbe anche una cascata, un bosco e via discorrendo. A supporto del disegno generale di Guth, ci sono le scene ed i costumi di Christian Schmidt, le luci di Olaf Winter ed i video di Andi Müller.

Anche un melomane girovago come me ha visto dal vivo poche volte “Die Frau ohne Schatten“. La prima volte fu nel 1967 (ero studente; ero “studente e povero” per usare un noto verso di un’aria verdiana ma riuscivo sempre ad andare al loggione) in quello che allora il “nuovo” Teatro dell’Opera di Francoforte, struttura modernissima. Non conoscevo l’opera che per averne sentito qualche sezione in disco. La messa in scena era tradizionale: palcoscenico a due livelli e scene dipinte. Oggi sembrerebbe semplice ma trasmise il grande fascino del lavoro. Negli Anni Settanta, il Metropolitan Opera di York sfoggiava un allestimento grandioso con cui metteva in mostra tutta la tecnologia allora disponibile.

Molto differenti tra loro le ultime edizioni viste. Ho visto a Firenze quella firmata da Ponnelle (presentata due volte alla Scala ma nata a Colonia): una scena unica minimalista da teatro cinese, valida grazie al grande supporto della direzione musicale, dell’orchestra, dei cori e dei cantanti. Grandiosa nel maggio 2010, sempre nella città del Giglio, la produzione di Kokkos, di cui a causa degli scioperi ci sono state due sole recite; una grande festa di immagini e di colori. Totalmente differente, la messa in scena di Christoph Loy  al Festival di Saliburgo: siamo nella leggendaria Sofiensaal di Vienna (ormai distrutta) dove nel 1955 Karl Böhn ed un cast stellare registrano l’opera e man mano che il lavoro procede gli interpreti in abiti anni cinquanta di fronte a microfoni e leggi, e seduti su semplici sedie quando non è il loro turno di cantare, entrano nei personaggi sino a soffrire e gioire per loro.

Cinque “donne” differente ma in ciascuna emerge il messaggio principale dell’opera: l’amore coniugale. In quegli anni, Strauss lo esaltava in due opere date una sola volta in Italia : “Die Aegyptische Helena” (“Elena in Egitto”) e “Intermezzo”.





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