LAVORO/ Meno teoria, più laboratorio: l’occupazione “comincia” in classe

- Gianni Zen

Le lezioni in azienda, spiega GIANNI ZEN, sono essenziali per un nuovo rapporto tra formazione e lavoro, per offrire possibili risposte o aprire nuove domande nel percorso scuola-lavoro

Apprendistato_FalegnameR400 Foto: Imagoeconomica

Se, come si è già detto più volte su queste pagine, la cifra della “occupabilità” dovrà segnare determinate scelte nel percorso scolastico dei nostri ragazzi, sarà molto importante stabilire nuove forme di raccordo tra scuola e mondo del lavoro, sia con la presenza di esperti nei curricoli specialistici che attraverso le “lezioni in azienda”. Quest’ultime sono la nuova frontiera della didattica, perché da un lato rispettano la logica prospettica delle “intelligenze multiple” e dall’altro fanno intendere che il nesso mente-mano è, oggi più di ieri, la chiave di volta per ridare significatività a tutta l’offerta formativa.

Lo sanno bene gli insegnanti: rispetto alla propria formazione, centrata sugli aspetti logico-astratti e su un ruolo attivo dell’immaginazione, la nostra società dell’immagine ha, per così dire, “curvato” gli approcci alle complessità concettuali, puntando l’attenzione sulla traduzione del concetto in immagine come prerequisito essenziale prima della vera formalizzazione secondo un linguaggio analitico ad hoc.

Si tratta di aspetti centrali del nesso insegnamento-apprendimento, perché coinvolgono la capacità di motivazione (motiv-azione) e quindi di passione e interesse (inter-esse). Quando una proposta (cognitiva e relazionale) riesce a farsi catturare dall’inter-esse, sarà gioco-forza più immediato il riscontro positivo da parte dei nostri ragazzi. Questo fa intendere quanti e quali fattori interagiscono in ogni approccio educativo-didattico, socraticamente sospeso tra un “domandare ragione” e la difficoltà a cogliere, nelle risposte via via incontrate, un sempre-ulteriore domandare, che è libero ricercare, che è libero appassionarsi.

Se l’alternanza scuola-lavoro ha avuto, negli anni (dal 2005), sempre più rilievo, in particolare negli istituti tecnici e professionali (assieme agli stages curricolari ed estivi, alle “aree di progetto”), questo si deve al fatto che si è intuita da subito la bontà di un approccio alla conoscenza capace di misurarsi con competenze che chiedono concretezza, cioè spendibilità e traduzione operativa immediata. Si impara facendo: learning by doing.

Gli obiettivi di integrazione didattica che devono essere ora percorsi non possono non puntare, ai fini della certificazione europea delle competenze e alla definizione dei profili d’uscita, alla vera pratica laboratoriale, allo strumento laboratorio come traduzione-in-atto della proposta teorica: dalle discipline alla didattica laboratoriale alle competenze da certificare.

Cosa si intende per competenze? Si tratta dei saperi essenziali, ma affrontati in forma non nozionistica, bensì problematica attraverso la messa in evidenza dei nuclei fondanti e degli approcci interpretativi, euristici (inventare e aprirsi a nuove conoscenze), investigativi (l’intuizione dello scopritore di nuove implicazioni).

Le materie, le discipline finiscono per avere un ruolo centrale, ma, nel piano programmatico di un consiglio di classe relativo a un gruppo-classe, dovranno costituire il piano di lavoro sul quale docenti e studenti saranno chiamati a misurarsi nel per-corso (che è un “passare attraverso”) educativo-didattico. Ma perché questo sia concretamente possibile si fa necessario nella programmazione individuare la “soglia di sufficienza” da un lato, e predisporre verifiche in itinere dall’altro. Periodiche, pensate a medio e lungo termine, per rispettare e qualificare i tempi di maturazione.

Il contesto, soprattutto per docenti allenati alla centralità dell’insegnamento, sarà esattamente ribaltato: dalla centralità dell’insegnamento a quella dell’apprendimento, cioè dello studente che apprende rispetto al docente che insegna. Non più una logica di mera trasmissione di dati consolidati, ma proposte di problematizzazione su unità didattiche collegate con richiami a nessi interni ed esterni.

È un cambio di marcia della stessa nozione di “cultura”: da possesso di conoscenze a capacità di interrogare, di lasciarsi interrogare dalle mille esperienze (pensate) di un passato che chiede non di essere riconosciuto, ma di essere rivissuto, in ordine a percorsi sempre aperti all’auto-trascendimento di concetti e contenuti sinora incontrati.

Nella didattica delle competenze, quindi, metodi e contenuti si fondono assieme, in una circolarità (l’esperienza integrale, e non solo formale-concettuale) che avrà effetti preziosi e virtuosi solo se accolta empaticamente anzitutto dai docenti, “maestri” (magis-ter) chiamati ad annullarsi/ripensarsi nel percorso di analisi-sintesi dei contesti studiati: dall’autorità del docente che insegna alla cosa che viene insegnata-appresa-cercata. “La cosa stessa”, cioè il principio di realtà.

Il tutto andrà, in itinere, ricondotto a modalità di valutazione in grado di certificare le stesse competenze maturate in ordine a standard condivisi a livello europeo-nazionale e di dipartimento. L’insegnare per competenze, infatti, comporta dei cambiamenti nei metodi di valutazione. Anzitutto, non potrà più essere accolto l’approccio “sommativo”, ma ci si dovrà concentrare su quello “formativo”, in grado cioè di sollecitare e, nello stesso tempo, registrare il percorso di ogni singolo studente. Non ci si potrà quindi limitare a una sorta di “restituzione”, quasi automatica per i più, a volte magari personalizzata (per gli studenti migliori), dei diversi input proposti dai docenti.

Il risultato dell’apprendimento è solo la risultante del cammino di maturazione di uno studente. Andrà graduato secondo tempi flessibili e comunicato, di volta in volta, come forma di auto-valutazione, e quindi di rimotivazione (pedagogia dell’errore).





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