JOBS ACT/ Il “taglio” che può far crescere il lavoro in Italia

- Giuseppe Sabella

I dati sui contratti di lavoro attivati a marzo ha fornito alcune indicazioni sull’effettivo riscontro che stanno avendo le misure del Jobs Act. Il commento di GIUSEPPE SABELLA

industria-fabbrica-operaio-pil-produzione Economia e Pil (Infophoto)

Sono usciti i primi dati relativi al Jobs Act e, come noto, si è registrato prevedibilmente un buon trend di crescita delle assunzioni a tempo indeterminato. Naturalmente la questione non poteva non incontrare un’alta attenzione da parte degli organi di informazione, ma si è passati da dati ripresi – qualcuno fa notare – con un entusiasmo che neanche Poletti e Renzi sommati insieme hanno profuso, alla stoccata nei confronti delle nuove norme: i buoni numeri sarebbero generati in realtà da altro. Quest’altro è naturalmente lo sgravio della Legge di stabilità, che ha previsto – per le nuove assunzioni a tempo indeterminato attivate fino al 31 dicembre 2015 – la decontribuzione piena per tre anni, fino a 8.060 euro l’anno, oltre al taglio dell’Irap. Quindi nessun merito del Jobs Act, i meriti semmai sono solo degli sgravi fiscali per le imprese.

Come abbiamo più volte sottolineato, non è la regolazione del lavoro a creare occupazione. Certo è che questa, se imperfetta, può far danni. Da questo punto di vista il Jobs Act riordina e semplifica strumenti di regolazione del rapporto di lavoro e consente alle nostre regole di fare un significativo passo avanti. Con l’introduzione delle forme flessibili del lavoro (leggi Treu e Biagi), non si era mai toccato lo strumento ordinario, cioè il contratto a tempo indeterminato. Questo perché non c’era mai stata la sufficiente volontà di riformarlo, col risultato che l’uso di tale strumento si era ridotto ai minimi storici (solo il 15% circa dei contratti attivati erano a tempo indeterminato).

Di fatto, però, ciò ha prodotto un mercato del lavoro schizofrenico, governato dall’incertezza, sia del datore di lavoro che del lavoratore: il pesante ricorso a contratti flessibili e a termine impediva al datore di avere la necessaria fiducia nell’investire sulla sua risorsa, e al lavoratore di sentirsi legato all’azienda, sempre sul chi va là e alla ricerca di una prospettiva con un temine più ampio. Da questo punto di vista, il Jobs Act con il suo contratto a tutele crescenti – il nuovo contratto a tempo indeterminato – semplifica e indica una strada al mercato: quella della stabilità.

Perché? Superato il problema dell’articolo 18 – consideriamo che i contenziosi giudiziali finivano quasi tutti con l’indennizzo e non col reintegro -, a questo punto l’imprenditore non ha più l’incertezza di un contenzioso giudiziale di cui sfugge la durata che comporta un indennizzo subordinato agli stessi agli anni di durata del medesimo contenzioso. Si tratta ora al massimo 24 mensilità. L’imprenditore può così calcolare il suo rischio ed è più propenso al ricorso all’utilizzo del contratto a tempo indeterminato e più disposto a investire sulla risorsa. Del resto, c’è qualcuno che assume per licenziare? D’altra parte, lo stesso lavoratore ora non è più a termine e certamente meno precario e più spinto a fidarsi del suo datore e della sua azienda. La dinamica può rivelarsi piuttosto virtuosa. 

In sintesi: le aziende non stanno assumendo per un contratto migliore, ma anche. Infatti, i contratti a tempo indeterminato attivati nel mese di marzo sono 162.498, a fronte dei circa 80.000 del bimestre gennaio-febbraio (quasi il doppio), quando lo sgravio valeva comunque…

Venendo allo sgravio, si tratta di un forte incentivo: le aziende, oltre all’Irap, risparmiano fino a 8.060 euro l’anno, che significa decontribuzione piena. Si dice che gli imprenditori stanno assumendo solo perché ora conviene, risparmiano. Premesso che non è il nostro costo del lavoro a essere alto perché questo è in linea con le medie europee e in qualche caso (vedi Germania) addirittura più basso, ciò che è di molto sballato è ilclup, ovvero il costo del lavoro rapportato all’unità di prodotto. Ciò rimanda al bisogno di innovazione del nostro sistema produttivo, tema che avrebbe bisogno di essere promosso perché non a tutti chiaro, soprattutto agli imprenditori per primi.

Tuttavia, abbiamo discusso per anni sulla necessità di tagliare il cuneo fiscale, ovvero la somma delle imposte dirette e indirette che pesano sul costo del lavoro: il nostro livello è tra i più alti d’Europa. Il governo, di fatto, lo ha tagliato. Perché non chiediamo al governo di rendere strutturale, almeno in parte, questo taglio? Il trend di crescita dell’occupazione potrebbe diventare organico e positivo sul lungo periodo.

 

In collaborazione con www.think-in.it







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