DDL LAVORO AUTONOMO/ Le novità che contano per Partite Iva e smart working

- Gabriele Fava

Il Consiglio dei ministri ha approvato un disegno di legge contenente delle misure specifiche per il lavoro autonomo e lo smart working. Il commento di GABRIELE FAVA

impiegato_pc_mano_phixr (InfoPhoto)

Il disegno di legge approvato dal Consiglio dei ministri lo scorso 28 gennaio si compone di 21 articoli e sin dall’intestazione mette bene in chiaro la propria “doppia anima”: “Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato“. Il disegno, per l’appunto, dedica il suo Titolo I a quello che è stato – forse troppo enfaticamente – definito lo Statuto (o il Jobs Act) dei lavoratori autonomi, mentre il Titolo II contiene le disposizioni regolanti il cosiddetto smart working.

Ci si attende, adesso, un percorso parlamentare particolarmente spedito per il disegno varato dal Cdm, dato che lo stesso seguirà il medesimo iter della Legge di stabilità, sul modello di quanto già fatto nel 2010 per la legge 183 (il cosiddetto “Collegato Lavoro”).

Venendo all’analisi del provvedimento, come anticipato, con il Titolo I vengono adottate delle misure per la tutela del lavoro autonomo cosiddetto “non imprenditoriale”. Va detto che da tempo si avvertiva l’esigenza di un intervento che riavvicinasse le garanzie e i diritti dei lavoratori autonomi a quelli dei lavoratori subordinati, nell’ottica di costruire un sistema di welfare che tutelasse anche i diritti di coloro che risultassero esclusi dal sistema di protezione previsto per questi ultimi.

Negli ultimi decenni, infatti, si è assistito a una sorta di boom dell’auto-imprenditorialità a basso (e bassissimo) reddito, che, lungi dal rappresentare un fenomeno di reviviscenza dei fasti della micro-imprenditorialità del dopoguerra, altro non è stato che l’estremo portato della crisi economica e della rigidità delle regole del mercato del lavoro. I nuovi “piccoli imprenditori” sono, invero, per lo più soggetti privi di altre forme di impiego che accettano di accedere un livello di garanzie sensibilmente inferiore rispetto a quello del lavoro dipendente pur di garantirsi un reddito.

In tal senso, si leggono con favore le disposizioni del provvedimento in esame che riconoscono a tali lavoratori il diritto agli interessi moratori in caso di ritardo nel pagamento nelle transazioni commerciali e all’utilizzo economico per le invenzioni e gli apporti originali nell’ambito dell’esecuzione del contratto, nonché la totale deducibilità – entro il limite annuo di 10.000 euro – delle spese per la partecipazione a convegni, congressi e corsi di aggiornamento. Di particolare interesse sono, poi, le disposizioni in tema di maternità e congedo parentale, oltre alla cosiddetta “moratoria contributiva” in caso di malattia grave. 

Il Titolo II del disegno di legge disciplina invece, come detto, il cosiddetto smart working. Volendo ridurre in termini pratici l’intervento in materia, l’esecutivo ha provato a dare una definizione di tale strumento tale da costituirne una versione semplificata e, di conseguenza, maggiormente accattivante per le aziende, del telelavoro. Si tratta di una nozione ampia che include tutte le forme di prestazioni rese parzialmente al di fuori dei locali aziendali, fermi restando i vincoli di legge e collettivi in tema di orario di lavoro.

La disciplina delle modalità di esecuzione della prestazione lavorativa al di fuori dei locali aziendali è demandata all’accordo tra le parti, lasciando alla contrattazione collettiva (anche aziendale) soltanto un ruolo integrativo e ancillare. Rimangono ferme, in ogni caso, alcune condizioni basilari che è lo stesso legislatore delegato a indicare: diritto alla parità di trattamento dello smart worker; apposite misure di protezione dei dati e di tutela della sicurezza sul lavoro; assicurazione antinfortunistica.

Va detto che il menzionato accordo tra le parti – che può essere sia a tempo determinato, sia indeterminato – accede soltanto all’originario contratto di lavoro, il quale rimane inalterato per tutti gli elementi non modificati dall’intesa sul lavoro agile. Tale manovra, nella visione del Governo e secondo i dati degli osservatori nazionali ed esteri, dovrebbe generare un considerevole balzo in avanti della produttività del nostro Paese, abbattendo anche in maniera rilevante il tasso di assenteismo.

Al di là della riproducibilità su larga scala di quanto osservato su di un ristretto campione statistico (ardua sentenza che solo il tempo potrà emettere), non si può negare che lo strumento in oggetto si presenti come da subito capace di avere un impatto concreto su uno degli elementi storicamente più tormentati del mercato del lavoro italiano: il tasso di disoccupazione femminile.

In un contesto di carenza strutturale di servizi pubblici dedicati alla cura dei bambini in età prescolare, le misure di flessibilità concesse dall’utilizzo dello smart working vanno, di fatto, considerati come una significativa opportunità di conciliazione delle esigenze personali e professionali delle lavoratrici madri nei primi anni di vita dei propri figli. 

Ciò che, tuttavia, rappresenta il vero elemento di novità di tale strumento di flessibilità è la spinta verso una maggiore responsabilizzazione del lavoratore in termini di raggiungimento di obiettivi aziendali e la conseguente adozione di nuovi modelli per il lavoro subordinato. Venendo meno la materialità del luogo di lavoro e la soggezione in senso classico al potere direttivo datoriale, sarà l’idea stessa di prestazione lavorativa a dover inevitabilmente cedere il passo a sistemi diversi di valorizzazione dell’apporto del lavoratore. Non più mera messa a disposizione delle energie lavorative per un determinato orario giornaliero e settimanale, ma misurazione delle performance per obiettivi e maggiore partecipazione ai risultati dell’impresa.

In tal senso, stupisce la scomparsa dal testo dello schema di legge licenziato dal Consiglio dei ministri della disposizione – presente nella bozza circolata nei giorni precedenti – che prevedeva il diritto anche per gli smart worker agli incentivi fiscali legati alla produttività. È probabile che l’esecutivo si sia reso conto della ridondanza della previsione in discussione, stante il principio, espressamente riconosciuto, di non discriminazione tra lavoratori “ordinari” e lavoratori “smart“.

Un’interpretazione diversa – nel senso della specifica esclusione dello strumento in oggetto dal campo della defiscalizzazione -, oltre a costituire un vero e proprio handicap per la misura ancora ai blocchi di partenza, non sarebbe neanche coerente con il complessivo impianto dell’intervento proposto. A mio modesto avviso, infatti, l’accesso agli sgravi connessi al premio di produttività dovrebbe essere la naturale conseguenza di una forma di flessibilità introdotta dal Governo – almeno a leggere la relazione illustrativa al provvedimento – proprio “allo scopo di incrementare la produttività“. 





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