Riforma pensioni 2016 / La finta flessibilità dell’Ape

- Mario Cardarelli

Per la riforma delle pensioni 2016 il Governo continua a lavorare all'Ape. Ma per MARIO CARDARELLI c'è più di un aspetto che risulta poco convincente nell'Anticipo pensionistico

poletti_problemaR439 Giuliano Poletti (Infophoto)

Le prime notizie che sono apparse dopo la riunione dell’altro giorno tra governo e sindacati in merito alla flessibilità pensionistica confermano alcune cose e ne specificano meglio altre. Tuttavia in base alle prime dichiarazioni rilasciate dagli intervenuti e apparse sui media on line non sono tali da cambiare il giudizio espresso nel precedente articolo del 13 giugno. Delle cose che non si cambiano, a partire dall’alto, la principale è che non si cambia la Legge Fornero. Ma su questo non sembrano esserci particolari contestazioni. L’unico appunto che verrebbe da fare è che la soluzione trovata sembra proprio inadatta a rimuovere le sole criticità pur mantenendo il quadro normativo basilare in essere. 

Infatti, si parla di flessibilità e si presenta un meccanismo rigido con un’impostazione dirigista che poco o per nulla è ispirato allo stesso principio fondante della Riforma che si vuole mantenere e che la stessa Fornero ha sottolineato in uno dei suoi ultimi rinnovati interventi: il principio contributivo. Ossia chi vuole uscire prima può farlo, basta che se lo paghi. Ora non si vorrebbe scomodare la Storia tornando indietro a quello che fecero gli inglesi quando collegarono le tasse che dovevano pagare a ben altro, però. Però perché la flessibilità pensionistica deve essere realizzata in una modalità che ricorda l’Ancien Règime? All’opposto sempre gli inglesi con l’ultimo provvedimento in materia firmato da Cameron hanno reso possibile il ritiro di tutti i contributi desiderati in funzione “fai da te”. È chiaro che in un sistema previdenziale italiano geneticamente a ripartizione succederebbe l’inimmaginabile ed è chiaro che quanto sopra è stato citato a mo’ di paradosso. La domanda però resta in piedi senza risposte. Perché si deve contrarre un prestito per andare in pensione? Perché quello che si ottiene è la pensione attualizzata per la quale devo pagare o meno interessi secondo il mio status: disoccupato espulso, esodato, stufo di lavorare, ecc. Senza dimenticare che poi lo devo restituire con un piano di ammortamento fino a 20 anni. Però! 

A parte che restano punti oscuri nel caso di espulsione di forza lavoro per crisi come pure per riduzioni di costi a leva di utili in merito al contraente obbligato alla restituzione ammortizzata, l’unico aspetto che risulta chiaro è che per uscire si passa per la porta stretta del prestito. Se cambia il mio status da obbligato/costretto a desideroso non pagherà l’azienda (e poi cosa? Capitale e interessi o solo interessi? E come lo farà, stipulando conti con le banche?). Una cosa altrettanto chiara in modo lampante è che l’Ape serve come cintura protettiva dei conti Inps più che dello Stato.

Se è vera l’affermazione di Nannicini che fare la flessibilità senza l’Ape, e cioè senza quello che caratterizza l’Ape, ovvero il prestito, costa allo Stato 10 miliardi, allora qualcosa non torna. O è una dichiarazione mal riportata, come a volte accade, oppure qualcosa non torna nelle finalità più che nei conti. E questo aspetto appare ancor più critico perché a guardar bene il meccanismo si riscontra che si tratta di uno strumento maneggiabile più a livello individuale che collettivo, cui legare di conseguenza ulteriori atti regolamentari di casistica, ergo complicazioni. 

Facciamo un semplice ragionamento parametrando due situazioni. Con il riscatto volontario od obbligato degli anni mancanti tra l’età di uscita permessa e quella di traguardo per la pensione (la vecchiaia) si versano i contributi, calcolati dall’Inps secondo il metodo contributivo (meglio ripeterlo a scanso di equivoci), per quegli anni dandone la conseguente titolarità. Insomma, apri il sito Inps, sai quanto devi versare, provvedi tu o il tuo datore di lavoro o lo Stato, come terzo generoso, e vai in pensione. Età con aggancio speranza di vita, no problem. Va bene anche la soglia anagrafica obbligatoria minima. Se poi lo Stato vuol fare di più, ti permetterà di usare più di un canale per far confluire quanto necessario per pagare i tuoi contributi, sia che si chiami Rita o Tfr, sia che si chiami prestito se i soldi non li hai. 

Con l’Ape si esce solo con il prestito. E qui i 10 miliardi di costo risparmiato non c’entrano nulla. Infatti, di chi sono i soldi che “ritornano dal futuro”? Sono dei futuri pensionati che se li sono anticipati facendoseli intermediare dalle banche a pagamento. Resta sempre in piedi in questo quadro e senza una risposta adeguata allo status degli interlocutori il vero “perché” di questa scelta. Una scelta senz’altro particolare se si scende nella futura casistica applicativa.

Faccio un esempio. Quando si dovranno estromettere dalle sole banche circa 10/15mila addetti cosa succederà? Le banche cancelleranno lo strumento del fondo esodo e concederanno prestiti agevolati ai dipendenti per uscire? E se avvenisse, speriamo di no, un’altra crisi (leggasi anche solo politiche di riduzione dei costi a seguito di flessione di utili) in grado di tagliare trasversalmente più settori tipo l’automobilistico, l’assicurativo e parte del manifatturiero, cosa accadrebbe con sindacati di settore con diverso potere di negoziazione, con la presenza o meno di strumenti di sostegno diversi dai Fondi? 

Al 23 giugno, prossima “data di tavolo”, forse risposte arriveranno.





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