RIFORMA PENSIONI 2016/ Lavoratori precoci, un altro “caso esodati” da evitare

- Giuliano Cazzola

La riforma delle pensioni è sempre nell'agenda del Governo Renzi. Tuttavia, spiega GIULIANO CAZZOLA, sarebbe sbagliato approvare tutti gli interventi ipotizzati

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Il Centro Studi della Confindustria (Csc) è senza alcun dubbio uno degli osservatori più autorevoli e competenti per quanto riguarda le analisi e le previsioni nel campo della politica economica. Negli ultimi anni, gli “Scenari” periodici hanno accompagnato le speranze di ripresa del Paese, pur senza debordare rispetto alle esigenze di cautela connesse a un contesto di fragilità della nostra struttura produttiva e dei conti pubblici. 

Nel 2015 le previsioni del Csc furono incoraggianti e confermavano quelle contenute nei documenti di politica economica e finanziaria del Governo. Infatti, nel Rapporto n.25 presentato nel dicembre dello scorso anno, con il titolo promettente di “Ripresa in attesa di decollo”, la Confindustria scriveva che “le nuove previsioni Csc sul Pil italiano sono di +0,8% nel 2015, +1,4% nel 2016 e +1,3% nel 2017. Nel triennio saranno creati 650mila posti di lavoro, che portano a 815mila il totale da quando sono ricominciati ad aumentare”. 

Nel Rapporto (Scenari economici n.27) presentato la settimana scorsa, le campane del Csc, se non suonano ancora a morto, mandano comunque dei segnali sinistri. Dopo aver ricordato le grandi turbolenze che si agitano sul piano internazionale, il Csc scrive: “Nel contesto di accresciuta turbolenza globale ,l’economia italiana presenta una debolezza superiore all’atteso. La risalita del Pil si è arrestata già nella scorsa primavera. Gli ultimi indicatori congiunturali non puntano a un suo rapido riavvio, piuttosto confermano il profilo piatto. Il Csc semplicemente incorpora nelle nuove previsioni i dati recenti.

I rischi si mantengono verso il basso. La crescita indicata per il 2017, sebbene già del tutto insoddisfacente – aggiunge il Csc – non è scontata e va conquistata. L’evoluzione recente fa riemergere con forza la questione del divario di crescita tra l’Italia e gli altri paesi europei, che pure in media non sono brillanti. Prima, durante e dopo la Grande recessione (che nel Paese è stata più intensa e lunga) si è accumulato – continua il documento – un distacco molto ampio: tra il 2000 e il 2015 il Pil è aumentato del 23,5% in Spagna, del 18,5% in Francia e del 18,2% in Germania, mentre è calato dello 0,5% in Italia. Le dinamiche in corso sentenziano che le distanze stanno aumentando ancor più rapidamente. Sul piano dell’avanzamento economico, il Paese ha alle spalle un quindicennio perduto”. 

Quali sono, allora, le conseguenze? “Ai ritmi attuali di incremento del prodotto – questa è l’ardua sentenza del Csc – l’appuntamento con i livelli lasciati nel 2007 è rinviato al 2028mentre non verrà mai riagguantato il sentiero di crescita che si sarebbe avuto proseguendo con il passo precedente, pur lento. La crisi, infatti, ha comportato un netto abbassamento del potenziale di crescitaitaliano, che nelle stime del Fmi è sceso dall’1,2% allo 0,7%. Oltre ad aver diminuito l’utilizzo della capacità produttivaancora esistente. Per ottenere una crescita maggiore, dunque, occorre lavorare su due fronti: quello della rimozione degli ostacoli che intralciano il pieno sfruttamento del potenziale che c’è e quello dell’ampliamento di questo potenziale.

L’elenco degli ostacoli comprende il credito (la cui contrazione sta proseguendo), l’edilizia (ancora in stallo) e la minore competitività (causata dallo sganciamento del costo del lavoro dalla produttività). L’ampliamento del potenziale parte dall’individuazione delle cause del suo restringimento: produttività fermae declino della popolazione in età di lavoro. L’una e l’altra richiedono più investimenti, in capitale fisico e capitale umano”. 

Che fare, dunque? “Il deterioramento della performance dell’economia italiana rispetto alle stime della scorsa primavera riduce ulteriormente gli spazi di manovra per la politica di bilancio. Ciò impone – è la risposta del Csc – che le poche risorse disponibili siano concentrate sulle voci che hanno maggiore efficacia nel rilanciare la crescita: sostegno agli investimenti pubblici e privati, scambio salario-produttività, patrimonializzazione delle imprese”. 

Se queste sono le indicazioni viene da chiedersi se in questi anni sono state dislocate in modo prioritario e opportuno le ingenti risorse che pure sono state impiegate per decine di miliardi (il bonus degli 80 euro, la detassazione della prima casa, le varie mance elettorali, l’assunzione dei precari della scuola, ecc.) allo scopo di potenziare la domanda interna e far ripartire i consumi. 

Se queste considerazioni hanno un minimo di fondamento che senso ha – in una fase come l’attuale – impegnare importanti risorse nel settore delle pensioni? Come abbiamo più volte segnalato, talune misure allo studio sono utili e di buon senso: l’Ape in particolare. Per quanto riguarda le altre – soprattutto gli interventi preconizzati per i precoci – è bene essere cauti. Coloro che hanno cominciato a lavorare prima dei 18 anni sono 3,5 milioni. Ovviamente quelli che sono prossimi a far valere i requisiti per la pensione anticipata sono meno (si dice 80mila). Ma si potrebbe compiere un’operazione limitata a questi ultimi senza aprire “una finestra” sul futuro? Già l’onere per quelli (gli 80mila?) che potrebbero usufruirne è insostenibile, a fronte delle risorse stanziabili per l’intera operazione-pensioni. Ma l’effetto imitativo – visto il numero degli interessati (i 3,5 milioni) – sarebbe dirompente; come avvenuto del resto per i cosiddetti esodati per i quali si sta preparando, a livello parlamentare, l’ottava salvaguardia. 

Ecco perché il Governo sembra orientato a non fare nulla per quanto riguarda i “precoci”. In sostanza, si determinerebbe, altrimenti, una spinta ricorrente a modificare, sul piano generale, uno dei requisiti previsti dalla riforma Fornero (relativo all’anzianità contributiva richiesta per avvalersi del pensionamento anticipato) nel senso indicato dalla proposta di legge di Cesare Damiano (41 anni senza adeguamento automatico né requisito anagrafico). 

Le simulazioni dimostrano che questa “via d’uscita” sarebbe la più onerosa perché ripristinerebbe sic et simpliciter il trattamento di anzianità, la peste bubbonica del nostro sistema pensionistico. 





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