INDUSTRIA 4.0/ Come “salvare” il lavoro dalle macchine

- Gerardo Larghi

Si parla sempre di più dell'importanza dell'innovazione e di Industria 4.0. Occorrono però degli interventi, spiega GERARDO LARGHI, per evitare la perdita di posti di lavoro

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“L’industria del futuro avrà solo 2 dipendenti: un uomo e un cane. L’uomo sarà li per nutrire il cane. Il cane sarà lì per evitare che l’uomo tocchi qualcosa”. L’aforisma di Warren Bennis sintetizza meglio di qualunque discorso la convinzione più diffusa sul rapporto tra innovazione tecnologica e lavoro. L’innovazione tecnologica corre a una velocità che facciamo sempre più fatica non solo a percepire ma perfino a concepire. Essa dovrebbe consentirci di vivere meglio, sia in termini di qualità del lavoro, sia in termini di qualità della vita che discende dalla diffusione di tanti nuovi prodotti, ma non è così.

I sapienti dicono che il “sentiment” della gente comune è sbagliato e se il popolo pensa che le cose vanno di male in peggio e che abbiamo l’iPhone ma ci manca il lavoro, ecco è il popolo che si sbaglia. E invece no. Perché il popolo ha sempre ragione, anche quando condanna Gesù Cristo alla croce: senza quel gesto non ci sarebbe stata la Resurrezione! È vero che le macchine, sempre più autonome e performanti, sostituiscono l’operaio, classicamente inteso, e che la tuta blu è sempre un segno distintivo, certo, ma ormai allo stesso modo in cui la striscia bianca sul pelo contraddistingue i panda. È una razza in via di estinzione: almeno in Europa. E il resto del mondo con tempi più o meno lunghi seguirà. Quindi avremo sempre più macchine e sempre meno lavoro? E dunque come faremo a guadagnare per vivere? Chi ci darà il pane?

Ancora una volta i sapienti ci avevano fornito la risposta: le tute blu dovevano essere sostituite dalle macchine e poi magicamente dovevano trasformarsi in tute bianche, in tecnici ed esperti. Peccato che siamo nel Paese reale e non nella contrada di Alice e che dunque non sia stato finora possibile trasformare le tute blu che sono scomparse per lasciar posto a macchinari complessi e performanti, e soprattutto che rispondono pienamente alle esigenze produttive, in tute bianche, ingegneri, programmatori, tecnici, esperti, consulenti e via elencando.

No, il mercato del lavoro ha assunto sempre più l’immagine di un Giano bifronte: certo tanti ingegneri, tecnici, esperti, ma giovani, giovanissimi, e soprattutto in genere assunti a partita Iva o come liberi professionisti. E per contro, le tute blu che hanno perso l’impiego spinte ai margini del mercato, o compresse nel mercato marginale: cooperative, lavori sempre meno qualificanti e qualificati, rincorsa a un0occupazione fosse pure con prospettive di crescita e formazione nulle o bassissime.

Intendiamoci, non è compito degli imprenditori occuparsi della formazione di chi sta fuori dalla loro impresa: è questo piuttosto il compito di uno Stato che però, sembra dimentico, o meglio attonito, basito, catalettico, di fronte a ciò che sta avvenendo.

Il problema non è l’innovazione in sé, non sono le tecnologie che faranno parte di questo nuovo ecosistema: intelligenze artificiali, robotica avanzata, sensori evoluti, internet delle cose, fabbricazione digitale (come la stampa 3d), cloud computing, nuovi modelli di marketing, acquisizione e analisi dei dati, piattaforme mobili di comunicazione, algoritmi usati per guidare veicoli a motore (strumenti di navigazione, app di condivisione di guida per veicoli autonomi).

No, loro ci faranno certo vivere meglio (eppure qui sorgono domande che però andrebbero poste a teologi e moralisti più che a sociologi o sindacalisti), il clima migliorerà, i processi produttivi saranno performanti, il nostro umore non sarà più costantemente sul depresso andante. Forse le imprese torneranno perfino a casa e le scarpe italiane non verranno più fabbricate in Oriente!

No, il problema è credere che tutto ciò produrrà un aumento dell’occupazione perché la diminuzione dei costi produttivi consentirà un aumento dei margini e quindi un costante reinvestimento del guadagno. Ecco siamo arrivati al punto: davvero l’aumento dei margini verrà reinvestito in azienda e in occupazione o sarà invece reinvestito in tecnologia, cioè paradossalmente, in ulteriore disoccupazione?

Non lo sappiamo, non possiamo saperlo, anche perché a memoria d’uomo, Industria 4.0 ha un solo precedente nella Storia, e cioè la famosa rivoluzione dei P&P, cioè la moltiplicazione dei Pani e Pesci, attività di cui detiene il segreto una persona che però non sappiamo esattamente quando tornerà disponibile alla bisogna. Nel momento in cui ci poniamo il problema del rapporto tra innovazione e occupazione, sarà bene quindi che ci domandiamo anche cosa leghi insieme questi due elementi: e la sola risposta possibile è che essi sono congiunti dal tema della formazione, della qualifica professionale, in altri termini del peso del fattore umano.

La distanza tra l’innovazione e l’occupazione cresce, infatti, perché le rispettive velocità sono incompatibili: la prima fila con il Frecciarossa, la seconda arranca come una littorina. Inventare, coordinare, costruire “app”, è attività quotidiana. Formare, e per di più formare esseri umani, attività che implica anzitutto una libertà ineludibile di fondo, ecco questa è una impresa che richiede tempi lunghi: non biblici, ma certamente tempi lenti rispetto alla tecnologia.

Questo spiega dunque perché, stando a quanto l’Ocse va dicendo, Industria 4.0 nel 2020 avrà prodotto 2 milioni di nuovi posti di lavoro e ne avrà distrutti 5 milioni. Occorre dunque agire in due direzioni: anzitutto un’inversione di tendenza nell’istruzione che sappia coniugare i due saperi, il saper fare e il saper essere. E poi un rinnovamento della scuola. Le riforme scolastiche, da quelle più recenti a quelle più antiche, hanno sempre fotografato la situazione in essere e cercato di adeguare il sistema formativo a quel che “in quel momento” era l’impresa e il sistema produttivo. Non a caso la formazione professionale da anni va interrogandosi su quale forma darsi. La domanda cui rispondere però sarebbe piuttosto quella di quale “velocità” dare alla formazione continua. Viceversa la distanza tra creazione di macchinari performanti e creazione di posti di lavoro sarà sempre più grande.

Nel corso della storia raramente l’uomo ha saputo valutare al giusto i ritmi degli sviluppi tecnologici: e si pensi, per tornare all’esempio di prima, allo stupore di quelle 5000 persone davanti alla moltiplicazione dei pani e dei pesci! Anche oggi non sappiamo in quale direzione andrà l’evoluzione scientifica e tecnologica, ma in compenso sappiamo che essa ha perfino assunto ritmi superiori a quelli sperimentati dall’economia globale negli ultimi decenni.

Ogni tanto salta fuori Keynes, e sul keynesismo si accendono dibattiti tra destra e sinistra, tra ex e post (ex comunisti e post capitalisti). In realtà, sempre più appare chiaro che ineludibile funzione futura dello Stato sarà di farsi promotore e garante (non per forza gestore, né gestore unico), della formazione continua, dell’istruzione, dell’innovazione e del progresso tecnico: è qui che gli investimenti pubblici (non solo statali ma pubblici nel senso più lato del termine) dovranno essere concentrati, non solo in quanto naturali moltiplicatori della domanda (e perciò della occupazione), ma soprattutto come diffusori di produttività privata attraverso utili infrastrutture e ricerca di base.

Forse così recupereremo qualcuno tra quei milioni di lavoratori, tute blu e bianche, che “il progresso” ha spinto e spinge ai margini.





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