FIAT/ Agnelli, la “dinasty” che ha cambiato l’industria italiana

- Gianfranco Fabi

Fiat è uno degli emblemi della grande industria italiana, e ne ha segnato la storia. Un libro di Gigi Moncalvo ripercorre la saga della famiglia Agnelli. Ce ne parla GIANFRANCO FABI

Agnelli_Gianni_ManoR439 Gianni Agnelli (Infophoto)

Tra i problemi più rilevanti dell’economia italiana c’è sicuramente quello della grande industria per due motivi essenziali: da una parte di grandi imprese ce ne sono veramente poche, dall’altra siamo di fronte da anni a una tendenza che vede ancora più diminuire l’occupazione in questo settore e quindi anche le dimensioni delle aziende. In Italia le imprese fanno una grande fatica a crescere soprattutto perché gli oneri, le complicazioni, gli adempimenti aumentano in maniera esponenziale e molto spesso costituiscono un vincolo che blocca una possibile espansione.

E a questo scenario si aggiungono i problemi particolari. Quando si parla di grande impresa non si può che fare riferimento giustamente e inevitabilmente a Fiat, una delle pochissime realtà italiane industriali ad avere una dimensione multinazionale. E la Fiat ha dovuto affrontare negli ultimi decenni molte problematiche che hanno reso particolarmente difficile mantenere alta la sfida competitiva. Ha dovuto e deve affrontare un problema di prodotto e di mercato, con il settore dell’auto in perdita di velocità in tutta Europa, con una crescente competitività da parte dei produttori asiatici, con un forte influsso del calo dei consumi provocato dalla crisi economica.

C’è un problema di sovracapacità produttiva in tutta l’industria europea con la necessità di ridurre i costi e ristrutturare le produzioni come la stessa Fiat ha fatto con la chiusura dello stabilimento di Termini Imerese e con la completa revisione delle linee produttive e dei metodi di lavoro a Pomigliano d’Arco. C’è infine un problema, questa volta tutto Fiat, di governance dell’impresa, cioè di definizione delle strategie e degli assetti di comando da parte degli azionisti: dopo anni di vicende travagliate e drammatiche, l’assetto sembra peraltro ormai definito con John Elkann, giovane rappresentante della famiglia Agnelli, alla presidenza e con un manager di consolidata esperienza come Sergio Marchionne alle leve di comando.

Con Marchionne la Fiat ha aumentato la propria dimensione multinazionale, soprattutto con la coraggiosa acquisizione della Chrysler, ma ha giustamente protetto le proprie radici italiane, elemento essenziale di identità e carattere. Pur con molte complicazioni, come la vicenda ancora aperta di Pomigliano con le ingiunzioni giudiziarie e lo scontro con i sindacati. Una vicenda che ispira un giudizio per il quale si potrebbero parafrasare le risposte di Padre Cristoforo a don Rodrigo sulla “dotta disputa” sull’ambasciatore bastonato: non vi dovrebbero essere né esposti giudiziari, né assunzioni obbligate, né licenziamenti per ritorsione. Allo stesso modo con cui è intervenuto il parroco della comunità di San Felice, dove ha sede lo stabilimento, don Peppino Gambardella: “È il diavolo che divide ed è Gesù che unisce”, ha detto richiamando “la proposta evangelica dei contratti di solidarietà”.

In questo caso il problema di fondo infatti non è tanto quello di dividere la ragione e la colpa, ma di guardare a due elementi fondamentali: da una parte la dignità della persona e del lavoro e dall’altra la necessità di dare prospettive di crescita al sistema economico.

Proprio questi due fattori sono stati quelli messi a più dura prova in questa occasione. Con il “fare impresa” che si trova coinvolto in dispute che nulla hanno a che fare con la produttività, la competitività, la motivazione al lavoro che sono elementi fondamentali di quella crescita economica che tutti dicono di volere. Ma forse c’è anche da chiedersi se la Fiat attuale non risenta ancora dei “passaggi generazionali” che sono stati altrettanto complessi quanto drammatici e che in molti casi hanno fornito spunti per le cronache rosa e per i racconti di intrighi finanziari, più che per le analisi di management e di politica industriale.

Se ne ha la chiara percezione nell’ultimo enciclopedico libro di Gigi Moncalvo “Agnelli segreti” (Ed. Vallecchi, pagg. 524, € 19), dove si descrivono con puntualità non tanto gli scenari economici quanto, per dirla con Ludovico Ariosto: “Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori, le cortesie, l’audaci imprese io canto”. E la famiglia Agnelli, dagli anni ‘30 alla fine del secolo scorso, ha dato vita a una saga ugualmente segnata dall’aristocratica frenesia del lusso e dai drammi personali: l’avvincente narrazione di Moncalvo inizia infatti con l’incidente aereo in cui nel 1935 muore Edoardo, figlio del fondatore della Fiat, l’allora potentissimo senatore Giovanni Agnelli, e si conclude a novembre del 2000 con il suicidio di un altro Edoardo, figlio anch’esso di un altro senatore Agnelli, chiamato da tutti l’Avvocato

Il resto sembra quasi un contorno con un’azienda che sta sullo sfondo delle vicende familiari e che è stata per tre volte salvata da tre manager esterni alla famiglia: Vittorio Valletta nel dopoguerra, Cesare Romiti negli anni ‘80, Sergio Marchionne in questi anni. Un’azienda che resta comunque, al di là dei fasti e dei drammi familiari, un’espressione della realtà italiana.





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