ANTONIA POZZI/ Il genio di quella giovane milanese che tentò la “scalata” all’ideale

- int. Pietro Zovatto

Il Cardinale Gianfranco Ravasi celebra oggi una messa in ricordo della poetessa Antonia Pozzi. PIETRO ZOVATTO parla di questa figura sensibile e allo stesso tempo molto fragile

Antonia_PozziR400 Antonia Pozzi

Una Messa in ricordo di Antonia Pozzi, per ricordare una figura fragile capace di versi belli, intensi e sofferti. Il Cardinale Gianfranco Ravasi, Presidente del Pontificio consiglio della cultura, celebra oggi una funzione nella chiesa parrocchiale di Pasturo, in provincia di Lecco, in memoria della poetessa. Pozzi era una donna speciale da molti punti di vista. Geniale, ma sensibilissima, tanto da togliersi la vita a ventisei anni. «La Pozzi rappresenta il caso di una spiritualità e di forte ricerca interiore, travolta da una sensibilità estrema» ha detto il cardinale Ravasi. Di Antonia Pozzi IlSussidiario.net ha parlato con Pietro Zovatto, docente di Storia moderna e Storia della Chiesa, poeta e critico letterario.

Professore, chi era Antonia Pozzi e qual è stata la sua ricerca umana e poetica?

Nata nel 1912, figlia di una famiglia alto-borghese milanese, era una ragazzina delicata, minuta, di una rara sensibilità. Le venne impartita una cultura accuratissima prima dalle Marcelline, poi al Liceo Manzoni di Milano e all’Università Statale dove si laureò in letteratura italiana. Aveva una particolare attitudine per la poesia ed ebbe la fortuna di avere al liceo come professore il raffinato umanista Antonio Maria Cervi, di cui si innamorò. Un amore per la grande cultura classica, che il professore dimostrò unita alla dedizione all’insegnamento. Ma quell’inclinazione affettiva non fu assolutamente condivisa dal padre di lei. Era una ragazza che aveva un grande amore per il sapere, per il bello, per l’arte, uniti ad un amore per l’onestà di carattere morale ed etico. Un fiore puro, tutto propenso verso l’alto, che si muoveva in un clima religioso molto denso. Il distacco obbligato dal professor Cervi, per il quale nutriva un amore più che altro intellettuale, le lasciò un vuoto esistenziale mai più colmato.

Cosa può dirci della sua religiosità tormentata?

Era un’indole portata alla melanconia aggravata dalla delusione d’amore per quell’uomo idealizzato: non riuscì più ad uscire da quel trauma e ne rimase per sempre ferita nel profondo della sua anima, fissando per sempre la sua attitudine alla tristezza, alla melanconia e allo scoramento di fronte alle difficoltà della vita, sino al dramma finale.

Antonia Pozzi amava molto la montagna. Cosa può aver rappresentato per la sua sensibilità?

Penso che la montagna rappresentasse l’altezza degli ideali umani. Nel suo narrare poetico sono molto presenti i tramonti, le cime, i meriggi, l’acqua, l’orizzonte, ma soprattutto il grande silenzio. Nella poesia Notturno invernale, un piccolo capolavoro, scrive “Come una grazia cade dal cielo il silenzio”: sembra la frase di un monaco che vive isolato ma vicino a Dio.

Una figura segnata dal dramma esistenziale: si tolse la vita nel 1938. Cosa dobbiamo pensare di questo gesto estremo?

Ho letto una sessantina di sue poesie e sembra che la morte sia sempre in agguato dietro le sue spalle: parla della “notte dove non nascono i fiori e l’anima è avvolta dall’inverno” e tutto questo ci mostra come Antonia Pozzi fosse disamorata di se stessa. Nel suo verseggiare c’è sempre il brivido del baratro che sentiva, il pericolo dell’abisso. Il Grido di donna sembra un urlo disperato: “Se io nacqui sposa di te soldato” oppure “piove sul mio corpo autunnale come su un bosco tagliato”: versi elevatissimi, per niente ermetici, sebbene l’ermetismo stesse fiorendo ovunque in Italia. La sua poesia non sembra discepola di nessuno. Nei suoi versi si intravede il grido che emetteva, ma nessuno udì la sua voce. Il suo gesto estremo fu una specie di tragedia annunciata.







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