BRUCE SPRINGSTEEN/ Tra leggenda e realtà, il concerto di Londra con Morello, Fogerty e McCartney

- La Redazione

Il concerto di Bruce Springsteen con ospiti speciali è già passato alla storia. Ecco la cronaca dettagliata del nostro inviato a Londra LUCA FRANCESCHINI

bruceok_R439 Immagine di archivio

Bruce Springsteen all’Hard Rock Calling ci era già venuto nel 2009 e la registrazione di quel concerto era divenuta il contenuto principale del suo ultimo dvd dal vivo. Il sottoscritto, al festival organizzato a Londra, nel cuore di Hyde Park, ci era già stato nel 2010, quando headliner furono i Pearl Jam. Ottima organizzazione, ottima cornice, una selezione di band spesso e volentieri azzeccata, a volte difficili da vedere in Italia. Quest’anno Springsteen ci è ritornato in pompa magna e per dare l’idea del livello di popolarità che gode nel Regno Unito, basti pensare che tutti i biglietti sono andati esauriti ancora prima che venissero resi noti i nomi degli artisti che si sarebbero esibiti prima di lui. 

Lo Springsteen che stiamo vedendo in azione durante il tour di “Wrecking Ball” è tra i migliori da molti anni a questa parte. Mai che sia sceso al di sotto della soglia della decenza, però è vero che tre anni or sono, durante il tour di “Working on a dream”, era apparso a tratti voler recitare un copione consolidato, con show pur bellissimi che però sembravano più dei grossi greatest hits, con tante richieste dal pubblico, album storici suonati dall’inizio alla fine, ecc. Una E Street Band che stava diventando un grosso carrozzone, a tratti intrappolata in una sorta di caricatura di sé stessa, penalizzata anche da qualche acciacco fisico di troppo (Clarence Clemons in debito d’ossigeno che sbagliava una nota su due, lo stesso Bruce a volte affaticato più del dovuto nell’esecuzione dei pezzi più tirati).

Il concerto di San Siro del 7 giugno ha spazzato via ogni timore: show solido e ben strutturato, basato su un disco che, per quanto possa far discutere, ha comunque un suo senso e che non ci si vergogna a portare dal vivo; E Street Band rinnovata, con l’aggiunta di una sezione fiati e cori che la rendono molto più soul nell’impianto complessivo; un Bruce Springsteen più in forma che mai, desideroso di far festa col proprio pubblico sera dopo sera. 

L’aggiunta in cartellone di Tom Morello e John Fogerty, aveva poi fatto intuire che il concerto londinese del 14 luglio sarebbe stata una serata speciale. Dopo gli anonimi vincitori del concorso organizzato dall’Hard Rock Café, sponsor principale della manifestazione, ecco arrivare “The Nightwatchman” alias Tom Morello, ex chitarrista dei Rage Against The Machine, che ultimamente ha portato la sua carica eversiva e il suo forte messaggio politico al servizio di un folk pesantemente debitore a Woody Guthrie e al primo Bob Dylan. Proprio di Guthrie in questi giorni ricorre il centesimo anniversario della nascita. D’obbligo quindi l’omaggio con l’esecuzione di “Ease my revolutionary mind”. Uno show interessante e coinvolgente quello di Morello, anche se ovviamente è insolito vederlo in questa veste. La presenza di una delegazione di pompieri in sciopero per i tagli al personale, ospitati sul palco durante la conclusiva “World wide rebel songs” è la conferma di un artista che non ha rinunciato al suo lato più politicamente impegnato.

Si continua coi Lady Antebellum, band con all’attivo due dischi di cui l’ultimo, “Own the night”, ha fatto incetta di premi. Il loro rock zuccherosamente velato di pop non mi aveva mai particolarmente convinto, ma bisogna ammettere che dal vivo sono tutt’altra cosa: sound molto più pieno e incentrato sulle chitarre, pezzi più carichi e meno sdolcinati, gli otto musicisti mettono in mostra una bravura e un background di tutto rispetto. Come a dire, vengono da Nashville, Tennessee, e non è per caso.

E viene finalmente l’ora di Fogerty, introdotto a sorpresa (ma neanche più di tanto, vista l’amicizia che li lega) da un Bruce Springsteen quasi irriconoscibile, con camicia a scacchi e occhiali da sole. Nel suo brevissimo speech, il rocker del New Jersey riconosce al suo quasi coetaneo di essere una delle autentiche voci del rock americano. E difatti i Creedence Cleawater Revival sono, assieme a Bob Dylan e allo stesso Springsteen, probabilmente tra gli act che più hanno inciso nella memoria collettiva dell’ascoltatore medio: difficile pensare a una sola persona, anche musicalmente ignorante, che non abbia mai ascoltato una delle loro canzoni. Pur avendo alle spalle una carriera solista ultra decennale e assai invidiabile dal punto di vista artistico, Fogerty preferisce (più o meno comprensibilmente) puntare sul repertorio della sua band madre. Dall’iniziale “Hey tonight” alla conclusiva “Rockin all over the world”, cantata assieme a Springsteen, è tutto un susseguirsi di hit da capogiro: “Proud Mary”, “Have you ever seen the rain”, “Down on the corner”, “Looking out my back door”, “Who’ll stop the rain” e chi più ne ha più ne metta, non basta lo spazio per scriverle tutte. La band è in palla e affiatata, non disdegna improvvisazioni sui finali, mentre Fogerty è ancora in gran forma, seppure qualche cedimento di voce riveli impietosamente gli anni che passano. 

Ultimo cambio palco ed ecco che finalmente il cielo si apre lasciando spuntare qualche raggio di sole. Ovviamente non durerà fino alla fine ma per ora ce la godiamo. Le operazioni di allestimento si rivelano più lunghe del previsto e alla fine il Boss salirà sul main stage alle 19.30, con trenta minuti buoni di ritardo: certo, per noi italiani abituati ad aspettare fino alle 21 e oltre, questo non è affatto un problema; la penserà diversamente la fiscalissima polizia inglese, come avremo modo di accorgerci ben presto… 

L’inizio del concerto è di quelli speciali, quei regali che Springsteen ama fare ad alcune delle città in cui suona: si presenta assieme al tastierista Roy Bittan ed esegue “Thunder road” in una inconsueta versione acustica. Come lui stesso spiega, si tratta della canzone con cui aprì il suo primissimo show londinese, nel 1975 (poi pubblicato su dvd in occasione del trentesimo anniversario di “Born to run”). Esecuzione delicata, intimissima, ben diversa da quella più sbarazzina e a tratti gridata del ragazzo ventiseienne che era il Bruce dell’epoca. Il sessantatreenne che abbiamo davanti oggi, però, non mostra nessuna paura di invecchiare: l’impressione è che la consapevolezza del percorso umano e artistico fatto per arrivare fin qui gli possa far cantare questo inno giovanile che parla di fughe in macchina, con tutta la maturità che gli anni possono dare e senza nessuna paura di sentirsi ridicolo. Con l’arrivo del resto della band, si prosegue: in questo tour lo show ha un’ossatura molto regolare, che alterna i brani nuovi ai vecchi classici senza molto concedere all’improvvisazione e ai cambi di setlist così cari agli Springsteeniani più accaniti. 

Risultato: meno sorprese ma una più chiara comunicazione del messaggio principale. Un messaggio che, dopo la dichiarazione di intenti di “We take care of our own” e “Wrecking ball” (vera e propria risposta, disincantata ma più sincera, all’infatuazione “obamiana” di cui era un po’ vittima il precedente lavoro) trova tutta la sua forza nella lunghissima versione di “My city of ruins”, che perde le influenze gospel in favore del soul e che diventa un brano in cui si celebra la comunione tra chi c’è e chi ci ha lasciato. Era stata scritta per Asbury Park, la città natale di Springsteen, era diventata un inno di speranza dopo l’11 settembre e adesso, mentre la canta tutte le sere e presenta la band al grido di “I wanna know who’s in the house tonight”, rivolge un pensiero anche a chi quella casa l’ha lasciata per sempre: i nomi di Danny Federici e di Clarence Clemons sono i primi che vengono alla mente. 

Questa sera il sassofonista, fedele compagno di mille avventure, è evocato anche in “Spirit in the night” (altra presenza fissa di questo tour, uno dei brani in cui il soul della nuova E Street Band ha la possibilità di uscire più allo scoperto) quando, sdraiato sul palco mentre racconta le folli avventure dei personaggi di quella canzone, sussurra a Jake Clemons (il nipote, che più che degnamente lo sta sostituendo): “A quei tempi tu non eri ancora nato… ma io e tuo zio…”. Ed è davvero difficile non commuoversi. “Il passato è presente e il presente è passato”: dice così, introducendo “I’m alive” (sorta di moderna Spoon River, degna conclusione del nuovo album e anche ultimo dei nuovi brani in scaletta) ed è chiaro che la musica di questa sera è pesante di tutta la consapevolezza di che cosa voglia dire esistere e svolgere il proprio compito nel mondo. Un compito che contiene anche tanto sano divertimento: non mancano infatti i momenti di scanzonato rock and roll con “Working on the highway” e “Darlington County” (molto meno a leggere i testi, ma sono concepite lo stesso per saltare e ballare), della rilettura elettrica di “Jonny 99”, di una “Waiting on a sunny day” che non è più emozionante come nel tour del 2003 ma che è materia di divertimento soprattutto per i fan più giovani. 

Noi, che siamo più navigati e che cerchiamo in continuazione pretesti per dire che questo concerto è stato speciale e che valeva il viaggio e i soldi spesi gioiamo quando, rispondendo al disperato cartello di un fan spagnolo, Bruce attacca “Take ‘em as they come”, oscura outtake dell’album “The river”, talmente poco nota che aggiunge ridendo: “Beh, lui la vuole così tanto ma magari a tutti voi non frega niente!”. Non è così, ovviamente, anche se non sono in molti a conoscerla. Ma un concerto di Springsteen è bello anche per questo: perché c’è chi aspetta i classici ma c’è anche chi si fa i chilometri per ascoltarlo suonare qualcosa che renda quel concerto qualcosa di unico. Depone tutto in favore della serietà dell’artista e non è un caso che solo lui e Bob Dylan (ma anche i Pearl Jam non scherzano) vantino un così alto numero di “travellin’ fans”. 

Ma il concerto di Hyde Park verrà ricordato anche per il numero di ospiti che saliranno sul palco: la presenza di Fogerty è scontata, meno azzeccata purtroppo è la scelta del brano. “The promised land” viene cantata una strofa a testa ma il buon John proprio non tiene il passo e sbaglia pure la ritmica delle parole! Una cover sarebbe stata meglio… 

Tom Morello ha collaborato alle registrazioni di Wrecking Ball” e anche la sua presenza è più che mai telefonata: suona sulla irish “Death to my hometown” e sulla ballata “Jack of all trades”, al termine della quale sfodera un assolo che strappa applausi entusiasti. Ma non è finita qui: oggi, l’abbiamo detto, è il compleanno di Woody Guthrie. Quale modo migliore di festeggiarlo se non dedicandogli “The ghost of Tom Joad”? La versione della E Street Band è intensa e drammatica e l’alternarsi nelle strofe di Springsteen e Morello la rende ancora più tesa. Nel finale, una sorta di “guerra” di assoli tra i due che manda letteralmente in delirio il pubblico. Dal punto di vista prettamente musicale, questo è stato l’apice del concerto di Londra. Poco prima ci era andato vicino anche Nils Lofgren (probabilmente il più dotato tra i musicisti della band, anche se mai troppo valorizzato per questo) che aveva fatto il diavolo a quattro su “Because the night”, mentre particolarmente preziosa era apparsa anche “Empty Sky”, ripescata dal cassetto dopo nove anni e suonata in una versione inedita, diversa da quella a cui ci eravamo abituati nel tour di “The rising”. 

Ma il bello deve ancora venire: dopo “We are alive”, si sa, è il momento dei bis. E i bis sono il momento in cui la festa esplode. Si va sul sicuro senza troppi problemi e ci si scatena tutti: “Born in the USA” c’è anche stasera (in questo tour è una presenza fissa, non accadeva dal 1993!) e poi ovviamente “Born to run” l’altro grande inno giovanile che, dopo la parentesi acustica del tour 1988, è tornato ad eseguire in tutta la sua potenza, senza doversene vergognare. Stasera ci becchiamo anche la trascurabile “Glory Days” (che fa cantare tutti come matti ma che a me ha sempre lasciato indifferente), mentre “Dancing in the dark” dal 2002 è una botta di energia inaudita ed è l’ideale per mandare tutto a casa. Invece, nonostante siamo già entrati in orario di coprifuoco, Bruce e la band non danno segno di volersene andare. Anzi. 

Annunciato da un semplice “Ho portato un ospite molto speciale” ecco materializzarsi Paul Mc Cartney in persona che sorride e sembra quasi dire: “Salve! Passavo di qui…” E’ un’esperienza strana vedere fianco a fianco due personaggi di questo calibro: come a dire, il capostipite del rock britannico assieme a colui che ha raccolto l’eredità di Elvis e l’ha fusa con la consapevolezza letteraria di Dylan. 

Sono momenti rari e siamo pronti a goderceli. All’attacco di “I saw her standin there” viene giù tutto e per la prima volta nella mia vita capisco cosa vogliano dire i Fab Four nel Regno Unito. Segue una “Twist and shout” più indiavolata che mai dove Bruce e Paul si scambiano le voci e sembrano godersela un mondo. Poi, quando i due si preparano a suonare qualcos’altro, ecco che le autorità londinesi si fanno sentire. “Si era detto fino alle 22.15, avete sforato di mezz’ora, spegniamo tutto”. Per una volta si può dire che sia meglio essere italiani: Claudio Trotta si beccò una denuncia ma nel 2008 a San Siro non staccò la spina a nessuno. 

Bruce è visibilmente incavolato, prova lo stesso a cantare aiutandosi con le spie ma è inutile. Tutti a casa dopo “solo” tre ore e un quarto di show. In conclusione, durante la lunga camminata per raggiungere una stazione della metropolitana che non fosse ancora stata chiusa, ho capito che cosa mi piace così tanto di Bruce Springsteen: che un artista, dopo quarant’anni di carriera, abbia ancora cose interessanti da dire e si diverta come un bambino nel farlo. Proprio per questo vale la pena di andare fino a Londra per sentirlo. 

(Luca Franceschini)





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