SONGWRITERS/ Fred Neil: The Dolphins, al di là del Greenwich Village

- La Redazione

Torna la rubrica di GABRIELE GATTO dedicato alle grandi figure di cantautori americani che hanno fatto storia. Oggi si parla dello scomparso Fred Neil

fredneil_R439 Fred Neil

In principio era il folk revival. La rinascita del folk aveva casa in New York, Greenwich Village, là dove chiunque con una chitarra poteva sperare di cambiare il mondo. La politica e la musica si mischiavano ed ogni giorno arrivavano nuovi aspiranti folksinger giunti dai quattro angoli della terra promessa chiamata America, tutti con la propria chitarra acustica in mano, di soldi in tasca niente e, il più delle volte con un talento più da “giornalisti” che da cantanti.

Tra di loro ce n’era uno in particolare che su tutti metteva soggezione ed incuteva timore già solo per l’aspetto altero. No, non si parla di quel ragazzetto paffutello e imberbe che di lì a poco sarebbe diventato Bob Dylan. Lui era Fred Neil e veniva dalla Florida, nonostante la sua proverbiale ombrosità facesse a pugni con la solarità dei suoi luoghi natali. 

Racconta Bob Dylan nel suo Chronicles – Volume 1, fedele racconto di quei primissimi anni Sessanta, che Fred Neil era capace di tenere in pugno il pubblico soltanto con uno sguardo, tanto la sua presenza era magnetica e carismatica. Neil non era un folksinger come tutti gli altri. Conosceva il jazz e il blues a menadito e aveva nelle sue liriche una forza visionaria che i più si potevano soltanto sognare. 

La sua musica aveva ben poco da spartire con quella dei tanti emuli di Woody Guthrie. Lui la tradizione la conosceva meglio di tutti e per questo poteva permettersi di tradirla come e quando voleva. Così quando nel 1966 diede alle stampe il suo terzo album, intitolato semplicemente col suo nome, segnò una svolta nella storia della musica americana. Se ne accorsero in pochi, in realtà. Quel disco dalla copertina scura – una foto in bianco e nero dell’autore insieme al figlio su campo nero – avrebbe lasciato una traccia molto più profonda e significativa del numero delle copie vendute.

L’anno prima era uscito il primo disco completamente a suo nome, dopo un album a due con il folksinger Vince Martin. La copertina di quel suo primo disco era il simbolo di una generazione, al pari di quella di The freewheelin’ Bob Dylan. Lui lì, in piedi in mezzo alla strada, in un incrocio notturno di strade, col blu fondo della notte tagliato in due dalle insegne dei locali di New York, dove pulsava l’anima di una generazione. Quel suo primo disco era un incrocio di folk e blues, con i primi accenti elettrici che lampeggiavano vivi nei solchi e, su tutto, una voce baritonale a guidare il tutto.

Ma fu proprio con quel disco omonimo che Neil segnò la storia del cantautorato americano. Una chitarra carica di riverbero, che metteva in musica lo sciacquio delle onde del mare, segnava il preludio di uno dei momenti più alti mai ascoltati su disco. The dolphins era messa lì in apertura del suo omonimo album. Difficile definire quella canzone. Non era un brano folk. Era qualcosa di diverso e profondamente nuovo. Un pezzo che sembrava arrivare da chissà dove, da oltre la linea dell’orizzonte, un pezzo di vele e di vento, di sciabordare del mare, di echi lontani ed indefinibili. 

C’erano poi brani dall’eco più blues, a significare l’anima tradizionalista di Neil. C’era un bislacco pezzo psichedelico di otto minuti dal titolo impronunciabile (Cynicrustpetefredjohn Raga) che sembra più uno scherzo che altro. Ma, soprattutto, c’erano tre brani che avrebbero influenzato una generazione di autori e cantanti. 

Faretheewell (Fred’s tune) altro non è che una ripresa di un noto tema folk – Dink’s song – ma rallentato all’inverosimile e tutto sospeso fra gli scuri vibrati del canto di Neil ed arpeggi appena impercettibili di chitarra. Non c’è alcuno schema. L’accompagnamento musicale viene dilatato e staccato dalla linea della melodia tracciata da Neil, che pare sospesa per aria, oscura ed eterea allo stesso tempo. Green rocky road è un tempo a ¾ dall’andamento jazzato, dove ancora una volta la voce viaggia libera, divincolandosi dalle strette briglie dell’accompagnamento.

E poi c’è Everybody’s talking, la canzone che quasi tutti conoscono per la cover che ne fece Harry Nilsson nella colonna sonora di “Un uomo da marciapiede”. La versione del suo autore è però più meditabonda e allo stesso tempo inquieta. Ascoltandola, sembra proprio di vedere le ombre degli occhi della gente di cui parla il testo. “Non lascerò che tu ti lasci alle spalle il mio amore, no, non lo permetterò”. Mai vi è stata una canzone capace di condensare il rimpianto in così pochi versi. Everybody’s talking fu l’unico successo di Fred Neil (sebbene come autore e non come interprete). Di questo disco, il pubblico non se ne accorse quasi per nulla. D’altronde, il suo fascino era un fascino nascosto, segreto, lontano degli sfarzi del mondo pop ma anche dalle nuove ondate musicali che attraversavano l’America da costa a costa e che avrebbero portato di lì a poco ad una lunga ed effimera estate dell’amore.

Neil non si curava di tutto ciò che gli stava intorno e poco a poco finì per perdere interesse per la musica. Dopo il suo album omonimo, Neil non registrerà più nulla in studio, limitandosi in rarissime occasioni ad esibirsi dal vivo, per platee composte più che altro da vecchi amici, ad interrompere sporadicamente un silenzio trentennale, durato sino alla morte, giunta nel 2001.

Eppure, forse non se n’era neppure accorto, ma Fred Neil aveva aperto un sentiero che molti altri, nel futuro più o meno lontano, avrebbero percorso.

 

(Gabriele Gatto)





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