FIORELLA MANNOIA/ “A Te”, il tributo a Lucio Dalla: dove sono finiti il suo desiderio e pianto?

- Alessandro Berni

Operazione coraggiosa, ma che manca di contenuti quella tentata da Fiorella Mannoia con un disco di canzoni dello scomaprso Lucio Dalla. La recensione di ALESSANDRO BERNI

mannoia_R439 Fiorella Mannoia

Indovinello ai confini con la burla. Che differenza corre oggi tra due grandi della canzone italiana come Fiorella Mannoia e Mina? Nessuna, 21 giorni di distanza tra le uscite dei rispettivi ultimi lavori.  Puntualità chirurgica nel riproporsi a scadenza fissa per non disperdere il rituale della visita guidata annuale in aree monumentali.  Una sorta di pedaggio da pagare sotto il periodo delle festività alla ingombrante divinità laica di cui nessuno sente la mancanza ma che viene iniettata a forza dai venti concentrici di un circuito mediatico di cui la tv rappresenta ora solo uno delle numerose zone di formazione.  Come una inevitabile e minacciosa massa cumuliforme determinante l’atmosfera stagionale. 

Si potrebbe obiettare.  Due personalità grandi ma ben distinte sia a livello di gestione della propria presenza e soprattutto del puro suono vocale donato all’universo delle note.  Certo, innegabile, evidente come l’oro e proprio a partire da questo, altrettanto innegabile la loro comune evoluzione “archeologica”, la loro riproposizione con valenza squisitamente e prevalentemente “simbolica” nei confronti dei fruitori della musica italiana dei cosiddetti “classici”, quasi un escamotage per far passare di tutto o quasi.

Da una parte la recente Mina del soporifero “12 American Song Book” e con l’incombente minaccia di un non meno levigato e innocuo “Christmas Song Book”, dall’altra parte Fiorella Mannoia, interprete di rango che mischia piglio da grande classico a pasionarismo da salotto, scivolata da ultimo in un etno-pop sempre più retorico e ora, in mancanza di ragioni più persuasive, pronta pur essa ad imboccare la via redditizia del never ending remake.

Intendiamoci la Mannoia sin dalla sua seconda maniera (ormai risalente a metà degli ’80) si è distinta per il non comune talento nel coinvolgersi con sangue e passione nel repertorio altrui, sia quello creato appositamente per lei che quello rilevato di peso dal canzoniere dei grandi.  Tutto ciò era stato condotto con abile senso dei tempi, dei modi, dell’intensità di coinvolgimento in un dosaggio che metteva d’accordo spesso e volentieri quantità e qualità.

Con questa nuova uscita discografica la cantante romana aggredisce lo spazio in questione in modo scientifico puntando all’eliminazione sistematica dell’ascoltatore, ridotto – come nelle plurime uscite recenti della Tigre di Cremona – a convitato di pietra preso per sfinimento durante l’apatia sprofondata sul sofà post-cenone.   Già, perché questa sorta di droga indotta dalle abbuffate stagionali pare decisiva per apprezzare la compassata furbizia di questo sottofondo musicale.

Il risultato è questo “A Te”, presentato in pompa magna come omaggio sentito al grande compianto Lucio Dalla, abilissimo nel frasario da dedica scelto per il titolo e non meno scaltro nello strombazzamento pubblicitario accompagnato da dichiarazioni di vero e proprio amore per un repertorio del quale la nostra avrebbe avvertito l’urgenza di accostarvisi sin dalla dipartita del grande cantautore bolognese.

Si aggiunga un’orchestra registrata in presa diretta (Sesto Armonico) e una rassegna dei direttori d’orchestra più in vista (Vessicchio, Caruso, Zavattoni, Sirignano, Buonvino) a voler imprimere un preventivo marchio di qualità su un’operazione che mette in campo tutte le astuzie possibile per agganciare le vie trasversali del consenso.

In tutto questo sprecarsi di riflettori ed esternazioni altisonanti, c’era e c’è il rischio di inginocchiarsi preventivamente all’ascolto di un disco che si regge su una raffinatezza tiepida, laccata, pieno di una perfezione che punta tutto sull’apparenza dell’articolo griffato o di esercizi stilografici delle più svariate forme.   

E’ quello che risalta sin dalle iniziali Stella di mare e Se io fossi un angelo.  Un brodino caldo da gustare su un sofà con un bel plaid sulle ginocchia, un bel canto temperato e asettico, ed ecco pronta la riduzione dell’originaria indole stralunata e clandestina di quei capolavori  – pur su musiche già allora ricche ed eleganti – al culto della forma ossigenato a puntino.

E l’interprete romana finisce letteralmente per inchiodarsi nelle insidiose strettoie di episodi come Anna e Marco Milano, dove l’ineguagliabile narrativa del cantato originale fatta di  sterzate brusche e perentorie si perde in un rigido passo da mestierante di music club per intellettuali decaduti.

Tutto sembra filare ad un ascolto distratto e disimpegnato, ma ne esce tradito e smascherato per chi è in cerca di quella memoria di desiderio, di pianto e di speranza elusiva che incendiava le struggenti arie di Dalla.  Così una Caruso dove il dramma è ridotto ad un supporto ornamentale, una Sera dei Miracolidisfatta da una vuota perizia da chanteuse aggravata dallo stridore vocale dell’Amoroso.   

Una prova da dimenticare se non in quei pochi attimi dove la distintiva voce della Mannoia gioca in armonia con le confortevoli cadenze da ninna nanna popolare come ne La casa in riva al mare, Sulla rotta di Cristoforo Colombo o nell’enigma esistenziale di una Felicità ben resa nel suo respiro di snervante dilemma dal maiuscolo apporto di un Ron tra il rauco e il lirico.





© RIPRODUZIONE RISERVATA

I commenti dei lettori

Ultime notizie

Ultime notizie