THE CURE/ Il concerto: Robert Smith icona del passato. Il Dark è morto e sepolto

- Luca Franceschini

Che cosa rimane dell'epopea dark e della sua colonna sonora nel 2016? Il concerto milanese dei Cure dimostra che il tempo passa inesorabile. LUCA FRANCESCHINI

the-cure_R439 Immagine dal web

A volte penso che la mia più grande sfortuna, da appassionato di musica quale sono, sia quella di non avere mai vissuto i momenti in cui le cose accadevano davvero. 

Non sono così giovane e avrei potuto farlo, certo. Ma negli anni ’90 e nei primi Duemila ero più interessato al mondo del Metal, ragion per cui ho passato tutta la mia adolescenza ad inseguire gruppi di cui adesso mi interessa poco o nulla. 

Si dice che tutto serva nella vita, e questo è senza dubbio vero, però a volte mi piacerebbe essermi preso il lusso di veder nascere i Radiohead o, che so, stroncare “The Queen is Dead” degli Smiths  o “The Head on The Door” dei Cure, come fecero ai tempi due celebri firme del rock italiano. 

Già, i Cure. I Cure io dal vivo non li avevo mai visti. Sempre ascoltati, per la verità (una copia masterizzata di “Disintegration” è in mio possesso dagli anni dell’università e bene o male da allora li ho sempre masticati abbastanza) ma mai veramente seguiti nel loro percorso, mai amati così tanto da andare a spendere soldi per  vederli di persona.

E così, dopo essermeli persi nel 2012 per ragioni che ancora adesso non capisco (perché a quel tempo avevano già iniziato a piacermi davvero), non mi è rimasto che andarli a vedere a questo giro al Forum di Assago, durante uno dei tour più enigmatici della storia recente. 

Perché in realtà, non capisco mica che cosa ci faccia in giro l’allegra brigata di Robert Smith. L’ultimo disco, l’appena accettabile “4:13 Dream”, è uscito nel 2008, è stato portato in giro a dovere e da allora di piani per dargli un successore non se ne conoscono, perlomeno non di precisi e dettagliati. 

Riportano così in scena il loro spettacolo a quattro anni di distanza dall’ultima volta, quando nulla di nuovo è accaduto loro, per cui la possibilità che dietro si nasconda un normalissimo bisogno di soldi è più che legittimo. 

Comunque sono fatti loro e io sono ben contento di avere la possibilità, finalmente, di potermeli godere come Dio comanda. 

Il Forum di Assago è gremito in ogni ordine di posti e non potrebbe essere altrimenti: la data, così come quella della sera successiva, è esaurita da un anno esatto, vista l’enorme domanda che ancora c’è di questo gruppo. 

Un gruppo che, mi pare sia doveroso dirlo, ormai si va a vedere come si va a vedere un pezzo da museo. Non ci sono più volti pitturati, sguardi cupi e vestiti neri, tra il pubblico. Per quanto uno si guardi in giro, di Dark non ce n’è l’ombra e gli unici visi ricoperti dal cerone bianco e dal rossetto nero sono quelli di tre ragazzine spagnole che hanno cantato solo “Friday I’m In Love” e che hanno dato l’idea di essere rimaste conciate così dalla festa di Halloween della sera prima. 

L’atmosfera straniata e allucinante che un mio amico con qualche anno in più di me mi raccontò parlando del loro concerto all’Arena Civica di Milano del 1989 non verrà mai più ricreata, immagino. 

Il pubblico è quanto più generalista e anonimo possibile e solo l’età media elevata dei presenti fa capire che stasera si esibirà qualcuno con parecchi anni di carriera sulle spalle. Ma chi sia questo qualcuno è impossibile dirlo,  solamente guardando il pubblico.

Cosa vuol dire questo? Non tanto che i Cure non siano più legati ad un certo tipo di immaginario (non è una novità) ma che sembrino piuttosto un fenomeno ormai cristallizzato. Sono un’icona, fanno parte della storia del rock; sono ancora attivi, probabilmente faranno uscire un nuovo disco prima o poi ma alla gente che va a vederli non interessa: quel che conta è che si possa ammirare un pezzo di storia, tutto il resto è superfluo. 

In apertura i Twilight Sad, scelti a quanto pare da Robert Smith in persona come band di supporto per tutto il tour, hanno invece il compito di far vedere che cosa Dark, New Wave e Post Punk abbiano ancora da offrire in questo nuovo secolo. 

Gli scozzesi non sono dei novellini e due anni fa hanno fatto uscire un disco, il loro quarto, che è  davvero un piccolo gioiello. 

“Nobody Wants to Be Here And Nobody Wants to Leave” (la passione dei titoli lunghi ce l’hanno sempre avuta) suona come una fusione perfetta dei primi dischi di Editors e Interpol, ma allo stesso tempo è una versione più scura e rallentata delle stesse band. 

Suonano per una mezz’ora abbondante, penalizzati da volumi bassissimi e tra l’indifferenza pressoché totale di un pubblico che, ormai avviato verso la fase del “era meglio ai miei tempi”, forse non sa che farsene di cinque giovani che provano a portare avanti una tradizione cercando allo stesso tempo di far vedere che hanno una loro personalità. 

Non è un compito facile ma bisogna dire che ci riescono alla grande, aiutati anche da canzoni splendide come “Girl in the Corner” o “Last January”. 

Serviva forse un po’ più di tiro nelle esecuzioni (a tratti sono sembrati un po’ statici) ma di sicuro i volumi pietosi hanno dato il loro triste contributo. 

Il cambio di palco per gli headliner è fin troppo lungo e c’è da chiedersi che cosa abbiano fatto in questo lasso di tempo i tecnici, visto che i suoni per tutta la sera saranno tra i peggiori mai uditi al Forum. 

Il risultato è che tutte le complesse e variegate sfumature che la band britannica sa offrire nelle varie canzoni, se anche c’erano, sono andate quasi del tutto perse. 

Ma andiamo con ordine. Delle tre possibili aperture che girano in questo tour (che poi, bene o male, sono le stesse da anni) stasera si privilegia quella che avrei preferito sentire di più, vale a dire la doppietta “Open”/”High”, da quel capolavoro che risponde al nome di “Wish”. 

Il pubblico le accoglie con un boato ma poi finisce qui. Statica, troppo statica la partecipazione. Completamente seduti gli spalti, non troppo esagitati neppure quelli del parterre. Persino tra le prime file, dov’ero io, non sembrava esserci tutto questo entusiasmo. Unico segno di vita, ovviamente, i telefonini perennemente accesi a documentare tutto il documentabile. 

Dal canto suo, la band è carica a molla. Da “Pornography” in avanti, questa è cosa nota, la formazione dei Cure è cambiata spesso e per molto tempo il monicker è stato associato ad un semplice progetto del leader Robert Smith. 

Quasi subito è però tornato il bassista storico Simon Gallup, che è qui anche questa sera e che a fine concerto risulterà di gran lunga il migliore in campo: sound pulsante e preciso, fondamentale nel fornire tiro ai pezzi, un protagonista anche nella presenza scenica. Ciuffo impomatato come negli anni ’80, braccia ricoperte dai tatuaggi e una maglietta degli Iron Maiden indossata così, a caso. Si muove per tutto il palco, in lungo e in largo, dando l’impressione di godersela un mondo e questa sua attitudine positiva non può che fare un gran bene allo show. 

Alla batteria, Jason Cooper fa un bel lavoro ma a volte l’impressione è che manchi un po’ di potenza e che sia un po’ scolastico, c’è il rischio che molti brani suonino tutti più o meno simili, pur se rimane un ottimo musicista, ci mancherebbe altro. 

Alle tastiere c’è Roger O’ Donnell, che è una vecchia conoscenza e che, assieme a Gallup, è l’elemento di più vecchia data in formazione. Conosce bene quei suoni, ha contribuito lui stesso a plasmarli e in effetti la sua è una grande prova, il suo strumento è sempre fondamentale nel definire di volta in volta il mood del brano. 

Sorprende, almeno me che lo vedevo per la prima volta, la sua totale immobilità, quasi statuaria, come se sia sempre e costantemente dentro il pezzo. Solo verso la fine si lascia andare ai sorrisi, come se finalmente stesse partecipando dell’atmosfera di festaiola di quella sezione del concerto. 

Per finire, Reeves Gabrels, vecchia conoscenza di Smith ma stabile in line up solo dal 2012; gran bel chitarrista, dà ai pezzi una dose di elettricità a volte eccessiva (alcuni suoi assoli erano un po’ fuori posto) ma la sua potenza e la sua precisione servono tantissimo. 

 

Per quanto riguarda il padre e padrone dei Cure, bisogna fare un discorso a parte. Robert Smith è una realtà ben consolidata nel mondo della musica; iconico come pochi, carismatico e sregolato, è indubbiamente uno dei musicisti più influenti della sua generazione. 

Oggi è un signore di mezza età visibilmente ingrassato, con la chioma molto meno folta che negli anni d’oro, il cerone e il rossetto ora un po’ meno vistosi ma comunque irrinunciabili, nonostante a cinquanta e passa anni si rischi il ridicolo; un po’ come la maschera di Gene Simmons o la divisa da scolaretto di Angus Young, giusto per capirci. 

Il fascino rimane immutato, la voglia di sbattersi idem e come chitarrista fa il suo in modo impeccabile; quel che non convince, ed è il punto più triste della serata, è la resa vocale. 

C’è chi dice che sia la prima volta che accade in questo tour, chi risponde che anche a Bologna era in difficoltà; fatto sta che dopo una prima ora scintillante e quasi priva di sbavature (se si eccettua la sciagurata decisione di cantare “In Between Days” un semitono sotto), l’ugola ha iniziato ad incrinarsi e da quel momento in avanti si sono visti problemi a non finire, con alcuni episodi meravigliosi come “End” o “From the Edge of the Green Deep Sea” completamente rovinati e altri, come “Doing the Unstuck”, resi quasi irriconoscibili dalla scelta di modificarne le linee vocali. Anche “Shake Dog Shake”, una delle loro cose più potenti in assoluto, ne è uscita massacrata, qui complice anche un fastidioso appiattimento del muro sonoro, ben lontano dalla raffinata stratificazione della versione originale. 

Basta questo incidente di percorso per affibbiare un voto insufficiente alla serata? Direi di no. I Cure del 2016 sono ancora una band in gran forma,  e stanno sul palco per quasi tre ore pescando a pieno dal loro vastissimo catalogo e offrendo una prestazione potente e affascinante, per lo meno in molti dei suoi punti. 

Certo, le atmosfere buie e asettiche di “Seventeen Seconds”, “Faith” e “Pornography” risultano quasi del tutto assenti dalla scaletta di questa prima data milanese. Fanno eccezione una tirata e avvolgente versione di “Primary” e una catartica “A Forest”, abbellita da una coda strumentale ipnotica e magnifica, forse il momento in assoluto migliore del concerto; ne rimane colpito anche Manuel Agnelli degli Afterhours, che quasi mi travolge nella foga di andare a raggiungere le prime file e poi rimane rapito a fissare il palco. 

Anche “Charlotte Sometimes”, uno dei singoli di maggior successo della loro prima fase, viene eseguita magnificamente e cantata da un frontman questa volta molto più a suo agio. 

Viene purtroppo dato poco spazio a “Disintegration”, questa sera ed è un peccato perché il capolavoro assoluto dei Cure meritava forse qualche citazione in più (è andata meglio a chi c’era a  Bologna, da questo punto di vista). Cionostante, le trame chitarristiche di “Pictures of You”, l’elegia amorosa di “Lovesong”, i sensuali sussulti  di “Lullaby” e l’epica drammaticità di “Fascination Street” (pur con un’esecuzione vocale non all’altezza),  colpiscono al cuore e giustificano da sole il prezzo del biglietto.  

Il resto dello show si divide equamente tra il pop scintillante di “In Between Days”, “A Night Like This”, “Friday I’m In Love”, “Boys Don’t Cry” e il groove sfacciato e impertinente di “The Walk”, “Hot Hot Hot!”, “Wrong Number” e la conclusiva “Why Can I Be You?” 

Nel mezzo, alcuni momenti di stanca dati sia da brani francamente trascurabili (“Never Enough” o “Burn”, scritta all’epoca per la soundtrack di “The Crow”), sia dalla prova vocale di Smith (la pur buona “The Hungry Ghost” è stata uccisa dall’impossibilità del singer di cantare l’efficace linea vocale del ritornello perché troppo alta). 

Arrivano anche due pezzi nuovi, “The Twilight Garden” e “It Can Never Be the Same”, giusto a confermare che forse un nuovo disco potrebbe davvero essere in arrivo. Discreti, nulla di più, con qualche velleità (soprattutto nel primo) di riprodurre gli ambienti sonori di fine anni ’80. Staremo a vedere. 

Le aspettative erano alte, forse fin troppo, ed è molto probabilmente per questo che sono uscito deluso. A mente fredda, però, è stato un bel concerto, con alcuni momenti indimenticabili. I Cure del 2016 sono sicuramente più una band che intende celebrare la propria storia, piuttosto che volerne scrivere un ennesimo capitolo. 

Resta che, a dispetto della serata sfortunata in cui è incappato Robert Smith, dal punto di vista strettamente musicale siano ancora in grado di offrire prestazioni di alto livello. 

Probabilmente oggi non sarebbe giusto chiedere di più. 





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