IL CASO/ Fare figli e accudire anziani in Lombardia conviene

- Luca Pesenti

Nella legge di riforma delle politiche sociali che la Regione Lombardia ha emanato all’inizio dello scorso anno c’è un’idea rivoluzionaria, tutta da sviluppare nelle sue concrete potenzialità

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Il nuovo “Rapporto Caritas su povertà ed esclusione sociale in Italia”, presentato alla fine della scorsa settimana a Roma, ha confermato un dato ricorrente nelle indagini sul tema: quello della perdurante e crescente fatica delle famiglie con figli.

 

Sono queste le “famiglie in salita”, come recita il titolo come sempre evocativo del Rapporto. Non a caso le coppie con tre o più figli sono anche quelle maggiormente rappresentate nella ricerca su “La povertà alimentare in Italia”, pubblicata da Fondazione per la Sussidiarietà e Fondazione Banco Alimentare.

Fare figli in Italia non conviene, dunque. Così come è sconveniente accudire tra le mura domestiche le persone disabili o gli anziani non autosufficienti. Un risultato raggiunto anche grazie a un sistema di welfare sviluppatosi come se la famiglia non ci fosse. Negando di fatto ai molti che non se lo possono permettere una autentica possibilità di scelta tra cura domestica e ricorso a servizi esterni.

È allora necessario invertire i termini, scommettendo al tempo stesso sulla capacità di scelta delle famiglie tra una pluralità di erogatori di servizi (come è accaduto in modo innovativo in alcune Regioni, prima tra tutte l’apripista Lombardia) e sulla disponibilità all’assunzione di una responsabilità di cura che per la sua valenza pubblica può e deve essere sostenuta.

Nella legge di riforma delle politiche sociali che la Regione Lombardia ha emanato all’inizio dello scorso anno c’è un’idea rivoluzionaria, tutta da sviluppare nelle sue concrete potenzialità: quella della famiglia come “unità di offerta”. La famiglia offre al proprio interno servizi di cura, per i propri membri (i figli e gli anziani, per l’appunto) e spesso anche per altri, come accade nel caso dell’affido e dell’adozione.

L’idea prefigurata dalla legge lombarda sembra fatta apposta per cogliere proprio questa potenzialità, rivoluzionando il sistema di welfare italiano in senso radicalmente sussidiario. Pensare alla famiglia come a una “unità di offerta” potrebbe infatti significare mettere sullo stesso piano i servizi offerti da soggetti privati (profit e nonprofit) con quelli offerti dalle famiglie. E soprattutto permettere alle famiglie che lo desiderano di scegliere realmente tra l’una e l’altra opzione.

Invece di finanziarie, direttamente o indirettamente, solamente i servizi cui solitamente le famiglie si rivolgono per avere aiuto (dovendo per altro sempre sobbarcarsi una parte consistente della retta complessiva), sarebbe possibile sperimentare forme di finanziamento diretto alle famiglie, sotto forma di buoni o di voucher. Lasciando a loro uno spazio di responsabilità (e dunque di scelta) ancora più ampia.

Se così fosse potremmo scoprire ad esempio che in molti casi la scelta di mettere un anziano in una RSA (le vecchie case di riposo) è un ripiego dettato da esigenze economiche, perché tenere l’anziano in casa, con una o più badanti a disposizione oltre alle spese di vitto e alloggio, costerebbe molto di più. E che basterebbe un sostegno economico, anche più contenuto di quel che mediamente una Regione spende per cofinanziare un posto letto, per lasciare l’anziano in casa sua fin quando possibile.

 

E ancora. Perché finanziare soltanto i servizi per le madri lavoratrici e non ipotizzare forme innovative di sostegno alla genitorialità che ribaltino la corrente logica della conciliazione rendendola funzionale non solo alle necessità del mercato del lavoro ma anche a quelle delle famiglie? Oggi ad esempio per molte famiglie a basso reddito l’astensione facoltativa dal lavoro a seguito di una maternità nel periodo compreso tra i 4 e i 12 mesi di vita del bambino è del tutto illusorio, stante la significativa decurtazione di stipendio che ne risulta (70% in meno).

 

A queste famiglie è dunque sostanzialmente negata una possibilità di scelta tra due diritti concomitanti: quello al lavoro e quello all’accudimento del proprio figlio. Se queste famiglie fossero trattate come “unità di offerta”, in molti casi si potrebbero sperimentare forme di sostegno almeno parziale al reddito, affermando il principio della scelta come strumento per affermare la centralità della famiglia.

 

Sono solo alcuni esempi, sufficienti per prefigurare un nuovo paradigma per le politiche famigliari. Mostrano infatti uno spazio di sussidiarietà tutto da esplorare, che scommette tutto su una famiglia capace non solo di scegliere a chi affidare i bambini e gli anziani, ma anche di continuare ad essere “fornitrice” in proprio di servizi di pubblica utilità anche là dove la situazione reddituale non lo permetterebbe.





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