SUD/ Storia di “salvataggi” falliti. A chi serve una nuova Cassa del mezzogiorno?

- Gianluigi Da Rold

I problemi del Sud sembrano recentemente tornati alla ribalta. Rivedere l’esperienza della Cassa del Mezzogiorno e riflettere sui problemi che ha incontrato può essere molto utile per valutarne una riproposizione

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È un periodo in cui c’è un ritorno di attenzione ai problemi del Mezzogiorno d’Italia. Anzi, per l’esattezza, ai mali endemici di una zona del Paese che è sempre in ritardo rispetto al Nord e che offre un altro volto dell’Italia. Dopo avere, in questi ultimi quindici anni, messo al centro del dibattito politico la “questione settentrionale”, si ripropone il problema della “questione meridionale”, che in realtà è uno dei nodi irrisolti italiani e su cui si dibatte da oltre un secolo.

 

Non occorre scomodare la memoria per ricordare grandi uomini di cultura, come Gaetano Salvemini e come Giustino Fortunato. E non si può fare di “tutta l’erba un fascio”, facendo solo bilanci catastrofici degli interventi che sono stati tentati per collegare, su un piano almeno di coordinamento economico positivo.

Il Nord e il Sud del Paese. In genere, quando si pensa al Sud, il pensiero ricorre sempre alla Cassa del Mezzogiorno, diventata poi AgenSud, che ha operato dal 1950 al 1984. La Cassa nacque su ispirazione di alcuni personaggi italiani di grande serietà e competenza economica e finanziaria, come Pasquale Saraceno e anche Domenico Menichella.

Dai primi mille miliardi di stanziamenti per far decollare l’economia del Sud si arrivò a interventi complessivi ingenti. Ma ugualmente, ancora oggi, le differenze tra il Nord e il Sud del Paese si vedono in modo netto e impietoso. È vero che l’Italia, da un punto di vista sociale ed economico, appare come un Paese duale. Ma non si può dire che questo dipenda dalla idea della Cassa del Mezzogiorno.

Se si va a guardare i principi ispiratori di quella iniziativa è difficile non essere, ancora oggi, d’accordo. L’intenzione del 1950 era quella di finanziare opere straordinarie, che dovevano essere funzionali alla formazione di un tessuto infrastrutturale che favorisse l’insediamento dell’industria e lo sviluppo dell’agricoltura e della commercializzazione dei prodotti agricoli nell’Italia meridionale. Quel tipo di intervento, che all’inizio fu programmato per una decina di anni e poi prorogato fino al 1984, era in linea con quanto fatto in altri Paesi occidentali, anche negli Stati Uniti, e aveva una matrice di stampo decisamente keynesiano.

Durante il periodo della sua attività la Cassa concesse contributi a fondo perduto e finanziamenti a tassi agevolati per il miglioramento e l’attuazione di iniziative pubbliche e private nel settore industriale, agricolo, turistico e artigianale. Alle aziende pubbliche e a partecipazione statale veniva fatto obbligo contemporaneamente di localizzare almeno il 60% dei nuovi insediamenti nel Mezzogiorno. Altra funzione della Cassa era quella di individuare delle aree che, opportunamente attrezzate, potessero diventare centri propulsori dello sviluppo industriale del Mezzogiorno.

Si discusse in modo trasversale dell’utilità della Cassa del Mezzogiorno. Famose in quell’epoca furono le analisi e i suggerimenti di un famoso periodico di sinistra “Cronache meridionali”. Ma anche in quella sede c’erano molte visioni dialettiche. Se un sicuro revisionista del Pci, come Giorgio Amendola, si scagliava contro i “finanziamenti a pioggia”, un altro sicuro revisionista come Giuseppe Di Vittorio, segretario della Cgil e comunista, preferiva che, in ogni caso, affluissero finanziamenti al Sud e poi si discutesse delle scelte da fare.

L’obiettivo e l’intenzione non erano affatto campate per aria. Il problema del fallimento degli obiettivi che si poneva la Cassa fu innanzitutto legato alla gestione politica di quell’ente pubblico e nello stesso tempo allo svuotamento umano del Sud per le esigenze impellenti della nuova grande impresa italiana del Nord. Probabilmente il limite storico della Cassa del Mezzogiorno sta in un incrocio di interessi politici e industriali e nella situazione di sicurezza, di controllo del territorio, in cui deve operare un imprenditore al Sud.

Ma è francamente inutile addentrasi nelle cause che segnano i ritardi dell’intervento statale e poi passare a luoghi comuni, triti e ritriti, sulla realtà storica del Sud. Sarebbe probabilmente meglio riprendere i motivi ispiratori della Cassa del Mezzogiorno, valorizzarli e gestirli meglio in questa fase storica, proprio mentre il Mediterraneo sta ancora per riprendere un peso maggiore nello sviluppo dei grandi commerci, in un’epoca come quella della globalizzazione. In più, guardando con realismo a tutto il Nord Africa che sembra un nuovo soggetto in fieri della globalizzazione.

In un ambito di chiarezza istituzionale, con un reale federalismo fiscale e una stanza di compensazione delle risorse che potrebbe essere codificato costituzionalmente (magari il Senato delle Regioni), si potrebbe ritentare la sfida dello sviluppo del Sud, la sua complementarietà allo sviluppo dell’economia nazionale. A costo di andare a smontare i tanti luoghi comuni, occorre forse ricordare che il “capitale umano” del Mezzogiorno d’Italia è sempre stato trascurato, mentre è riconosciuto di altissimo valore.

Forse occorre, nella chiarezza degli intenti e di un nuovo ordine costituzionale, ripartire proprio da qui. Arrendersi di fronte alla sfida di far decollare il Sud è peggio del fatalismo che si appiccica, con estrema facilità, proprio alla gente del Sud.





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