RETROSCENA/ Ecco perché la Consulta ha bocciato il Porcellum

- Giulio M. Salerno

La sentenza della Corte può forse suscitare sconcerto tra i giuristi e, certamente, perplessità e interrogativi nell'opinione comune. Ma si tratta di una svolta. GIULIO M. SALERNO

Urna_Schede_Elezioni_VotoR439 Infophoto

La dichiarazione di parziale illegittimità costituzionale delle leggi elettorali, annunciata ieri dalla Corte costituzionale, induce a riflessioni di senso opposto: il nostro ordinamento ha ancora al suo interno le risorse sufficienti per affrontare questioni politico-istituzionali di grande rilievo, come quella della democraticità delle discipline elettorali che, da lungo tempo incancrenita, appariva ormai bloccata di fronte al giuoco dei veti incrociati tra le forze politiche. La sentenza della Corte può forse suscitare sconcerto tra i giuristi che avevano sollevato dubbi sull’ammissibilità delle questioni sottoposte dalla Corte di cassazione al sindacato della Consulta. Ma non si può certo dire che tale pronuncia giunga all’improvviso. Da mesi si conosceva la data dell’udienza e la scelta della Corte costituzionale di decidere contemporaneamente sull’ammissibilità e sul merito delle questioni, è senz’altro lodevole: in caso contrario, si sarebbe aggiunta ulteriore incertezza ad un quadro normativo già per molti versi pericolante e che tanti danni ha prodotto sulla qualità e sull’efficienza delle istituzioni. Il Parlamento e il Governo avevano tempi e modi per eliminare i principali difetti delle leggi elettorali vigenti. E solo chi non voleva vedere la realtà dei fatti, poteva sostenere l’inutilità dell’azione giudiziaria coraggiosamente intrapresa dall’avv. Bozzi. Ma nulla è stato fatto, a dispetto degli avvisi ripetutamente manifestati dal capo dello Stato.

Soprattutto meraviglia il fatto che la questione non sia stata affrontata al momento in cui si è dato luogo all’attuale esecutivo. Chi immaginava che la Corte costituzionale si sottraesse innanzi a una questione cruciale di democrazia non ha fatto i conti con una semplice constatazione: il giudice nazionale di costituzionalità che declinasse, per ragioni di stretto formalismo procedimentale, di offrire il suo intervento di fronte a dilemmi fondamentali per la democrazia, sarebbe destinato inevitabilmente ad appassire, tanto più di fronte a processi di devoluzione della sovranità sempre più manifesti a livello sovranazionale. 

Inoltre, anche nel merito la decisione della Consulta è condivisibile: come si può ragionevolmente giustificare un sistema elettorale che attribuisce un premio di maggioranza altamente distorsivo senza alcuna soglia di voti o seggi? Come si può ammettere che al cittadino sia precluso di manifestare la sua preferenza rispetto a liste di candidati che, per di più, sono presentate da movimenti politici la cui organizzazione è ben lungi dall’ispirarsi ai principi democratici?

Forse, al lettore smaliziato può non meravigliare il presente stato di atarassia delle forze politiche che sostengono il Governo e che appaiono, il giorno dopo l’annuncio, praticamente immobilizzate a fronte dell’intervento così deciso della Corte costituzionale: in attesa delle primarie del Partito democratico, il Paese vive una stasi quasi irreale, mentre dal fronte delle opposizioni si agita la sentenza della Corte costituzionale come causa di un presunto oscuramento dell’intero sistema politico-rappresentativo. 

Calcoli politici inducono i più ad aspettare l’esito della prossima consultazione che sarà svolta da un’associazione partitica, il Pd, peraltro secondo modalità legislativamente non disciplinate. 

Ma si è sicuri che soltanto dall’esito di queste cosiddette “primarie” dipenda la risoluzione della questione sulle nuove leggi elettorali? Certo, l’individuazione di una proposta di riforma del sistema elettorale che abbia il sostegno unanime delle forze interne all’attuale maggioranza (un pentapartito costituito, in buona sostanza, da Pd, Ncd, Sc, il partito di Casini, e i popolari di ultimo conio), allo stato delle cose, non appare facile. Ma un Governo che sia degno di questo nome non può sottrarsi alle sue responsabilità davanti al Paese in un momento così difficile per le istituzioni. 

Qualunque giurista assennato si affanna a richiamare una verità lapalissiana: la sentenza della Corte costituzionale non inciderà in alcun modo sulla legittimità degli organi costituzionali oggi presenti e sugli atti da essi compiuti. Allo stesso modo, è probabile che, mediante l’inserimento di idonee clausole di salvaguardia collegate alla tutela della continuità degli organi costituzionali indefettibili, la censura operata dalla Corte costituzionale su alcune parti delle vigenti leggi elettorali non produrrà effetto alcuno sui procedimenti di convalida – tuttora in corso – delle elezioni degli attuali parlamentari. Ma è altrettanto vero che, pur in presenza di organi e atti pienamente legittimi dal punto di vista giuridico, gli attuali titolari delle istituzioni della rappresentanza politica (tutti inclusi, anche il capo dello Stato e la stessa Corte costituzionale) sono adesso investiti da una gravissima crisi di legittimazione che si diffonde in modo virale nell’opinione pubblica. 

Proprio per questo la classe politica, e soprattutto chi è al vertice delle istituzioni di maggior rilievo, deve dimostrarsi all’altezza di momenti in cui si impone il più alto senso dello Stato e la vera ricerca del bene comune. Non si può proseguire nel mercanteggiamento tra posizioni riformatrici proposte a meri fini di parte. Né il Governo può pensare di galleggiare mesi o addirittura anni, in attesa di un futuribile accordo sulla legge elettorale, per poi attribuire ad altri la responsabilità della mancata riforma. 

Il Parlamento deve essere messo rapidamente nelle condizioni di assumere una decisione su tale questione, e deve acconciarsi a svolgere tale compito, certo nel rispetto della sua autonomia organizzativa. In ogni caso, si deve trattare di una decisione che, come ha detto la Corte costituzionale nella breve nota di ieri, deve rispettare i “principi costituzionali”, cioè, come è chiaro, non si possono riprodurre gli stessi vizi che hanno condotto alla dichiarazione di illegittimità parziale della legge del 2005: non vi deve essere una sovrarappresentazione in senso maggioritario attribuita in modo irragionevole, e deve essere garantita la possibilità che il cittadino esprima la sua preferenza nei confronti almeno di un candidato. 

In assenza di un accordo rapidamente attuabile che rispetti tali principi, se si hanno davvero a cuore gli interessi dell’Italia, si deve avere il coraggio di riconoscere la propria impotenza e così andare a nuove elezioni, tanto più che il sistema proporzionale risultante dall’intervento della Corte costituzionale assicurerebbe parità di condizioni di partenza a tutte le forze in campo. Proseguire nell’inazione sarebbe un danno gravissimo alla nostra democrazia. Ai sorrisetti già visti in passato da parte di alcuni capi di Stato e di governo europei se ne aggiungerebbero altri, ben più diffusi e pericolosi per noi tutti: il complessivo deficit di legittimazione democratica dei vertici delle istituzioni si tradurrebbe nella pratica indifendibilità degli interessi nazionali e ci vedrebbe sempre più deboli nella dura competizione tra ordinamenti che ormai connota il processo di integrazione europea. Non è difficile prevedere che l’economia nazionale ne soffrirebbe ulteriormente, aggravando così la crisi sociale che è già ai livelli di guardia. I più foschi presagi si annuncerebbero alle nostre porte. Abbiamo ancora un’ultima chance, occorre coglierla senza indugio.

P.S. Qualcuno si ricorderà il referendum del 1991 sulla preferenza unica: il popolo si è già espresso sui sistemi elettorali delle Assemblee parlamentari, e ha voluto che, quando sia utilizzato il sistema proporzionale, almeno una preferenza sia prevista. Ridurre il voto elettorale a semplice approvazione di una lista assomiglia troppo da vicino alla deprecata “legge Acerbo” approvata sotto il regime fascista. Le elezioni, come si spiega nei testi giuridici, non sono né possono divenire plebisciti, a pena di rinunciare a quel principio democratico su cui, come prescrive l’art. 1 della Costituzione, si fonda la nostra Repubblica.     







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