SPILLO/ La “conversione” della sinistra che fa felice la finanza

- Gianluigi Da Rold

Il declino del Welfare State cui si assiste in Europa, dice GIANLUIGI DA ROLD, è il segno del trionfo della liberalizzazione della finanza, benedetta da una certa politica

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In un periodo di studi storici approssimativi, si può pensare che il cosiddetto “Welfare State”, che oggi l’Unione europea vuole smantellare o quanto meno ridimensionare, sia il frutto delle politiche e delle lotte sociali della sinistra. In realtà, il nocciolo storico di tutta la vicenda è più complicato, più complesso. Lo Stato sociale europeo esce da un intreccio di culture e di visioni ideologiche molto differenti tra loro, da un intreccio che è doveroso ricostruire alla luce di quanto sta avvenendo in questi tempi avventurati.

L’inventore, il fondatore del “Welfare State” è niente meno che un nobile inglese, Lord William Henry Beveridge, un liberale che redasse un rapporto nel 1942 per il governo guidato dal conservatore Winston Churchill. Sia Churchill che Beveridge erano due accorti politici che temevano l’influenza del comunismo e dell’Unione Sovietica una volta che la guerra fosse finita. Quel rapporto aveva come titolo “Social Insurance and Allied Service” e prevedeva robuste forme di protezione sociale.

Nel 1944, Beveridge, sempre in accordo con Churchill, redasse un altro rapporto che prevedeva un piano per favorire l’occupazione e una più equa distribuzione del reddito. Sia Beveridge che Churchill avevano vissuto la crisi del 1929, avevano temuto la paura del crollo del capitalismo (perché questo si temeva), avevano visto lo sviluppo impetuoso del comunismo e l’affermarsi delle ideologie totalitarie di destra. Nello stesso tempo avevano compreso l’impreparazione e l’incapacità di molti esponenti liberisti.

Negli Stati Uniti la battaglia contro la politica del presidente Franklin Delano Roosevelt fu contrastata duramente dai liberisti neoclassici. C’erano anche le “macchiette”, come il banchiere Morgan, che aveva proibito a parenti e domestici di pronunciare il nome Roosevelt perché gli “si alzava la pressione sanguigna”.

In definitiva, nel corso di un secolo, molti uomini di stato e molti economisti hanno cercato di spiegare che il “capitalismo va salvato dai capitalisti”, oppure come ha scritto recentemente l’ex ministro americano Robert Reich “il capitalismo è minacciato dai capitalismo”, per i monopoli che crea, per lo strapotere di grandi gruppi che snaturano lo spirito della libera iniziativa, per l’avidità, per i marchingegni finanziari che sostituiscono i processi di accumulazione e stagnazione dei cicli economici.

Il problema alla fine rimane sempre di natura politica. Ma qui arrivano le dolenti note. Al posto di contrastare l’avida ottusità di molti capitalisti e speculatori, oggi i politici sembrano pronti ad accarezzare il “pelo” alla acrobazie della finanza creativa, a scapito della stessa difesa della democrazia. Ai primi di settembre del 2012, ad esempio, la cancelliera Angela Merkel, ha detto al Parlamento tedesco: “Noi viviamo certo in una democrazia, una democrazia parlamentare, perciò la legge di bilancio è un diritto centrale del Parlamento. Comunque troveremo le strade, nel quadro esistente della collaborazione parlamentare, per far sì che ciò nonostante sia conforme al mercato”. In tedesco si dice Marckekonform.

Più o meno lo stesso concetto è stato ripetuto dai nostri Presidenti del Consiglio Mario Monti e Enrico Letta. E in quasi tutti i Parlamenti dell’Unione Europea. Insomma, è il trionfo della liberalizzazione della finanza, del mercato a cui anche una legge fondamentale dello Stato deve sottomettersi. È il trionfo delle agenzie di rating. Se il “Welfare” pesa sul bilancio, se non lo rende conforme al mercato, al diavolo il “Welfare” di Beveridge. È in fondo la rivincita di un economista come Wilhelm Ropke , che negli anni Quaranta parlava della convenienza di obbedire ai mercati: “L’obbedienza nei confronti delle disposizioni del mercato viene ricompensata, la disobbedienza punita”.

La risposta a Ropke potrebbe arrivare dai milioni di poveri e di disoccupati che sono comparsi dopo l’esplosione della crisi del 2007-2008, frutto perverso della liberalizzazione dei mercati finanziari. La preoccupazione, quindi, che si vede oggi per il futuro è che, in assenza di una classe politica capace e previdente, le diseguaglianze sociali, la radicalizzazione dei contrasti sociali che si manifestano oggi, si possano trasformare, prima o dopo, in uno scontro radicale di tipo politico dall’esito molto incerto.

C’è da notare che questo capitalismo finanziario, dai tratti ottusi e imprevidenti, nasce anche lui da un intreccio di diverse culture. Non c’è solo il vecchio capitalismo con le “macchiette” alla Morgan. Non c’è neppure da temere le riunioni del Bilderberg o le manovre del cosiddetto “partito di Davos”. Lì c’è concentrata molta ricchezza, ma anche molta cretineria capace di far risuscitare il comunismo e una pletora di destre di incerta ideologia.

Oggi c’è invece la conversione al liberismo di una specie di “sinistra bancaria”, che ha partecipato con entusiasmo alle privatizzazioni degli anni Novanta (magari con qualche suo esponente che faceva da consulente alle banche d’affari anglosassoni che hanno guadagnato una consistente percentuale). È sempre quella sinistra che non ha nulla da opporre allo strapotere della finanza, almeno in alcune regole da creare o da ripristinare.

Altra ironia della storia. Il “Welfare State” nasce dall’incrocio tra riformismo socialdemocratico e conservatorismo inglese. Il nuovo capitalismo finanziario si afferma tra la voglia di “arricchirsi” dei vecchi “pescecani” di ogni latitudine insieme ai “nipotini” del vecchio comunismo e quelli che un economista americano chiama gli “utili idioti” della finanza.





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