ACCORDO SENATO/ Pasquino: una riforma che prepara il “tutti contro tutti”

- int. Gianfranco Pasquino

Per GIANFRANCO PASQUINO, il bilancio della riforma costituzionale è negativo non soltanto sull’elettività del Senato, ma anche su enti locali, presidente della Repubblica e referendum

roma_quirinale_giustiziaR439 Il Quirinale visto dalla Consulta (Infophoto)

“Il bilancio della riforma costituzionale è certamente negativo, e il risultato è un pasticcio. Non soltanto sull’elettività del Senato, ma anche su enti locali, elezione del presidente della Repubblica e referendum”. A parlare è Gianfranco Pasquino, professore di Scienza politica alla Johns Hopkins University di Bologna. Domenica Renzi parlando al TG5 aveva rassicurato: “Non ci saranno problemi, le riforme vanno avanti, l’abbiamo sempre detto e sempre fatto ma c’è sempre un po’ di preoccupazione nel mondo politico”.

Perché ritiene che il bilancio di queste riforme sia negativo?

Né la legge elettorale né il nuovo Senato daranno maggiore funzionalità al sistema politico, e d’altra parte non daranno neanche maggiore potere ai cittadini. Alcuni si accontenteranno di pensare che spendono meno perché i senatori scendono da 315 a 100. Però non sanno quanti conflitti ci saranno tra il Senato da un lato e le Regioni, la Camera dei deputati, il presidente della Repubblica, la Corte costituzionale dall’altro. Conflitti che ci costeranno comunque tempo e soldi.

Chi ha vinto e chi ha perso all’interno del Pd?

Se la riforma del Senato passa con poche varianti rispetto all’attuale stesura, hanno vinto Renzi e la Boschi mentre la minoranza ha sbagliato quasi tutto. In particolare non ho capito la differenza tra designazione e nomina. Nella riforma si afferma che i consigli regionali designano i senatori, mi domando quindi come si possa parlare di elezione dei senatori da parte dei cittadini. Se le cose stanno così la minoranza non ha capito quasi nulla. Se per di più quei senatori sono eletti in un listino, cioè tutti in un blocco, quella non è l’elezione dei senatori bensì del listino.

Che cosa ne pensa del modo in cui la riforma ridisegna l’elezione del presidente della Repubblica?

Il vero problema è l’impatto che avrà il premio di maggioranza dell’Italicum. Fino al 1992 le maggioranze governative in teoria avevano una maggioranza per eleggere da sole il presidente della Repubblica, ma di fatto non ci sono mai riuscite. Alla luce di quanto è diventata aspra e maligna la lotta politica, oggi è possibile che un singolo partito con il soccorso silenzioso di alcuni parlamentari che si posizionano riesca a eleggere il presidente della Repubblica. Questo è un fatto che non va bene. Sottolineo che fino a quando non si cambierà la legge elettorale, il premio di maggioranza va a un unico partito.

Secondo lei come si corregge questo rischio?

Dopo un certo numero di scrutini, compreso tra i tre e i cinque, si può prevedere un ballottaggio tra i due candidati più votati per la carica di presidente della Repubblica.

Come interviene questa riforma per quanto riguarda gli enti locali?

Quello degli enti locali è un altro pasticcio. Non sappiamo che fine hanno fatto le province, e la mia impressione è che nella riforma sia incluso un tentativo di ri-centralizzazione. In un certo senso potrebbe anche essere accettabile, ma se noi creiamo una camera delle autonomie, decidiamo che ne facciano parte 21 sindaci e poi centralizziamo alcune funzioni, c’è il rischio che si creino dei nuovi conflitti.

La riforma interviene anche sull’istituto del referendum. Come valuta il modo in cui ciò avviene?

La riforma eleva a 800mila il numero delle firme necessarie a chiedere il referendum. Sarebbe stato legittimo aspettarsi un contrappeso, in base a cui il quorum non si calcolava più sulla base degli aventi diritto bensì sul numero dei votanti alle elezioni politiche più recenti.

 

Come vede la moral suasion di Mattarella per trovare una maggioranza più ampia sulle riforme?

Da parte di Mattarella, come pure di Napolitano, mi sarei aspettato che facessero notare una cosa: cinque senatori nominati dal presidente della Repubblica in una camera delle regioni non c’entrano nulla. Qui non è un problema di moral suasion ma di institutional reasoning, cioè di ragionamento istituzionale. Non conta però l’ampiezza della maggioranza che approva la riforma costituzionale, quanto piuttosto il contenuto che in ogni caso rimane di basso livello.

 

Sappiamo che lei ha conosciuto direttamente Pietro Ingrao, l’ex presidente della Camera morto domenica. Lei come lo ricorda?

Le idee di Ingrao sono state identificate con una posizione movimentista della politica. Ciò è vero solo in parte, perché Ingrao ha poi creato il Centro per la Riforma dello Stato, che pubblica ancora oggi la rivista Democrazia e diritto. Io stesso sono stato cooptato in quella rivista agli inizi degli anni ’80. E a proposito di riforme, Ingrao era favorevole al monocameralismo, che è una cosa molto diversa da un bicameralismo differenziato. Nel monocameralismo la sovranità popolare è espressa da una sola camera, che a quel deve essere eletta con un sistema elettorale apposito.

 

Quale eredità lascia Ingrao al nostro Paese?

Le posizioni di Ingrao sono sempre state minoritarie, tanto nel Paese quanto nel partito, ma erano posizioni che coglievano dei punti anche rilevanti. Il suo vero obiettivo era porsi come contropotere, e Ingrao stesso quando arrivava vicino al potere si ritraeva. Dopo essere stato per tre anni presidente della Camera, decise che non voleva più farlo perché si sentiva limitato nella sua capacità di espressione e di azione politica.

 

(Pietro Vernizzi)





© RIPRODUZIONE RISERVATA

I commenti dei lettori

Ultime notizie di Referendum

Ultime notizie