POLITICA & INCHIESTE/ Se sono ancora i pm (con certi giornali) a dettare l’agenda

- Gianluigi Da Rold

Il caso che si è creato con il voto sul senatore Augusto Minzolini, con minacce più o meno velate alla politica a conformarsi alle sentenze, dovrebbe fare riflettere tutti. GIANLUIGI DA ROLD

minzolini_politica_forzaitaliaR439 Minzolini resta senatore: la festa dei colleghi (LaPresse)

Il caso che si è creato con il voto sul senatore Augusto Minzolini diventa un precedente che impone alcune riflessioni sullo stato della situazione istituzionale italiana, oltre a quello dell’ulteriore confusione politica. 

Il famoso “governo dei tecnici” presieduto dal senatore a vita Mario Monti, ci ha fatto tanti “regali” e ci ha lasciato tante eredità: la celebre legge Fornero, con il dramma degli esodati; la politica del rigore ottuso di marca teutonica, che ci ha sprofondati nella deflazione anche se per alcuni avrebbe salvato il Paese dalla bancarotta. Al proposito vale la pena di ricordare che è merito di un grande economista e docente di storia economica, Giulio Sapelli (che scrive spesso sul sussidiario), aver quasi profetizzato, ai tempi del cosiddetto “salvatore” Monti, in un piccolo testo dal titolo più che significativo, L’inverno di Monti, che quella politica economica non ci avrebbe salvato dalla crisi, tutt’altro; così come poi è avvenuto. Infatti la crisi continua a esserci, nonostante sproloqui, dati mensili sempre da interpretare e altre sciocchezze che circolano sui media di questo Paese ormai allo sbando.

Ma quel governo, che è riuscito a favorire un giudizio dilagante di antieuropeismo in Italia (si parla, sottovoce naturalmente, di un 75 per cento di italiani scontenti), ci ha consegnato anche un altro regalino nel contenzioso — ormai storico e pluriennale — dei rapporti tra giustizia e politica in Italia, tra magistratura e Parlamento. 

Si tratta della legge Severino, una serie di disposizioni che regolano la decadenza degli amministratori pubblici, e quindi anche di deputati e senatori. La legge, che prende titolo dal nome del Guardasigilli dell’epoca, crea una strana (per usare un eufemismo) situazione. Quando si è colpiti da una sentenza definitiva, con una pena che supera un certo numero di anni, il deputato, il senatore o l’amministratore pubblico decadono immediatamente. Tuttavia sulla decadenza deve comunque pronunciarsi la Camera di appartenenza. E’ quanto avvenuto su Augusto Minzolini, con una maggioranza che ha respinto il provvedimento di decadenza.

Apriti cielo! Secondo alcuni democratici di questa nuova era repubblicana, quel voto ha rappresentato una sorta di colpo di Stato, una rivolta contro una sentenza della magistratura che dovrebbe essere il “faro” di tutti i rapporti istituzionali nell’Italia di inizio del terzo millennio. “Colpo di Stato” è stato il giudizio del vicepresidente grillino della Camera, Luigi Di Maio, che ci ha aggiunto pure un indiretto avviso alla violenza di piazza, dicendo sostanzialmente: non vi stupite se poi vengono sotto il Parlamento persone a manifestare in modo duro. 

C’è stato pure un giornale, punto di riferimento nella lotta alla cosiddetta “casta” e baluardo nella difesa delle “virtù” della magistratura, che ha fatto quasi una lista di proscrizione di parlamentari del Partito democratico che hanno votato a favore di Minzolini, con elenchi dettagliati in bella evidenza.

E con questa “lista di proscrizione”, in un clima di concitazione come quello in cui viviamo, ha ricordato, a nostro parere, il metodo che usava Il popolo d’Italia, creando non un nuovo Nazareno, come si dice con grande spigliatezza, ma piuttosto un’atmosfera di ulteriore rissa tra i poteri dello Stato.

Ora, è possibile che il vicepresidente della Camera, Luigi Di Maio, diventi o sia già un insigne giurista, che metterà ordine persino nello scontro storico tra Hans Kelsen e Carl Schmitt sulla “dottrina pura del diritto e dello Stato” (magari con l’aiuto di Alessandro Di Battista o addirittura della presidente della Camera Laura Boldrini); può anche darsi che il quotidiano, che indica al pubblico ludibrio i parlamentari rei di aver contestato una sentenza, sia animato solo da motivi di “trasparenza”. Ma non c’è dubbio che questa legge Severino crea qualche pasticcio e qualche problema.

E’ possibile che sia prevista una decadenza immediata, dopo la sentenza del giudice, e nello stesso tempo sia richiesto un voto della camera di appartenenza? La camera di appartenenza, a questo punto, può votare quello che vuole, come stabilisce la Costituzione, o deve mettersi sull’attenti di fronte alla sentenza del giudice? E se vota no, come ha fatto nel caso di Minzolini, si deve parlare di “ribellione”?

Forse si dovrebbe prendere atto che questo problema giuridico esiste e va affrontato senza toni da tifo da stadio, di tifoseria da strapaese o, peggio, da minacce di trasformarsi in hooligans.

Sembra impossibile che, ai tempi della grande scuola dei tecnici e della “nouvelle vague” della nuova democrazia repubblicana,  nessuno si sia accorto di questa incongruenza e di questo contrasto giuridico nell’ordinamento dello Stato.

Eppure, con una sicumera degna di miglior causa, il contrasto ormai trentennale (partiamo solo dal caso Tortora) tra magistratura e politica in Italia continua senza tregua; e — vista la situazione istituzionale, economica e sociale — appare come un fatto di faziosità e irresponsabilità con pochi precedenti nella storia di questo Paese, e che dovrebbe far aprire gli occhi su quello che è avvenuto politicamente a partire dal 1992.

Altro che dibattito sul garantismo! Quando nei paesi civili e democratici dell’occidente si emette un giudizio di condanna, si aggiunge la formula “oltre ogni ragionevole dubbio”. Nel Belpaese, i dubbi non esistono e più che dalla certezza del diritto si è sempre attratti dalla certezza della pena.

Va aggiunta un’altra considerazione. Nel via-vai tra magistratura e impegno politico di diversi personaggi, va aggiunto che uno dei giudici che ha modificato la sentenza di assoluzione di primo grado di Minzolini, in sentenza di condanna in appello, vi è pure un giudice che è ritornato a indossare la toga dopo svariati anni di milizia politica parlamentare nel campo avverso a quello di Minzolini.

Persino uno degli ispiratori della lotta alla “casta”, come l’ineffabile Paolo Mieli, ha sostenuto pubblicamente che vorrebbe vivere in un Paese dove non si venisse giudicati da un magistrato che è stato un avversario politico. Sembra una speranza vana, dopo quello che si è seminato con abbondanza in questi venticinque anni.





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