MIGRANTI/ Soldi & piattaforme di sbarco, tutti i punti deboli del piano Ue

- int. Paolo Quercia

Ieri Elisabetta Trenta ha incontrato al Serraj. L'Italia lavora per un percorso di pacificazione opposto a quello di Macron. Intanto arriva la proposta della Commissione Ue. PAOLO QUERCIA

francia_ledrian_serraj_lapresse_2018 Il ministro degli Esteri francese Jean-Yves Le Drian con Fayez al Serraj all'Eliseo (LaPresse)

Ieri il ministro della Difesa Elisabetta Trenta ha incontrato a Tripoli Fayez al Serraj. Trenta ha detto di lavorare per un percorso di pacificazione opposto a quello di Macron: “parlare di nuove elezioni prima di aver completato questo processo è un errore. Dopo ci ritroveremmo ad avere gli stessi problemi, noi come Italia voi come Libia”. Nel frattempo arriva la proposta della Commissione europea delle “piattaforme di sbarco” nei paesi non Ue. Il punto con Paolo Quercia, analista di politica estera e direttore del Cenass.

L’iniziativa del nostro governo in Libia va nella direzione giusta?

Sì, certamente. L’azione del governo sta finalmente rimettendo a fuoco il dossier libico in maniera ampia. È necessario recuperare la profondità del rapporto strategico, con tutti gli interlocutori e tenendo conto del fatto che la Libia non è solo un tunnel di instabilità dal Sahel al Mediterraneo centrale, ma anche un fattore di stabilizzazione/destabilizzazione lungo l’intera costa del Nord Africa, dall’Egitto alla Tunisia, all’Algeria. 

Quali sono gli errori da evitare?

Seguire una politica di frammentazione e tribalizzazione abbandonando l’approccio unitario. In questo gli errori fatti con la Somalia dalla Comunità internazionale devono essere di esempio. Gli europei e gli altri Paesi arabi che giocano nello scacchiere libico devono evitare di cadere nelle ingegnerie  tribali interne. La Libia come stato unitario, d’altronde, è un progetto storico italiano, e forse siamo più di altri titolati a riprenderne in mano le fila.    

Moavero ha chiesto a Bruxelles di ridiscutere la missione Sophia (l’Italia come unico porto di approdo). Prima la Ue ha detto no, ora pare che i partner europei ci stiano pensando. Nel frattempo, il governo intende autorizzare sbarchi solo da navi militari. Come commenta?

Il ministro Moavero si sta muovendo bene. E’ chiaro che Eunavformed si deve occupare di sicurezza marittima e non di Sar (ricerca e soccorso, ndr), ed in questo senso il mandato e il piano operativo della missione va rivisto. Fu un errore concepirlo in questi termini già all’epoca del suo lancio. Però occorre ricordare che Eunavformed l’abbiamo voluta noi e l’abbiamo voluta in questi termini. Per cui essi vanno cambiati con modalità e tempi adeguati. Va anche rafforzata la funzione di addestramento e tutoraggio delle forze navali libiche in modo di dare al Paese quanto prima i suoi strumenti di controllo delle sue aree di responsabilità marittima.

Dalla Commissione è arrivata la proposta di istituire “centri controllati” nei paesi Ue su base volontaria per accelerare l’identificazione dei richiedenti asilo e rimpatriare gli irregolari che non hanno diritto a rimanere nell’Unione. I paesi che accettano riceverebbero 6mila euro a migrante. La proposta prevede inoltre “piattaforme di sbarco” nei paesi terzi. Le sembra una strada percorribile?

L’idea delle piattaforme di sbarco in Paesi non Ue è buona ma di non facile realizzazione, specialmente in Africa. Forse qualcosa si riuscirà a fare nei Balcani. Bisogna però stare molto attenti ai meccanismi finanziari, che possono divenire una facile molla di ricattabilità. Non dobbiamo dimenticare che la vera natura della crisi migratoria è economica, molto più forte di quella “bellica” o della “sicurezza”. E’ un mercato selvaggio e anarchico che crea e regola i flussi in queste proporzioni.

E dunque buttare soldi dentro può essere pericoloso.

Sì. Meglio un approccio che preveda sia incentivi finanziari per i Paesi che collaborano secondo i nostri standard umanitari, sia eventuali sanzioni economiche e commerciali per coloro che non collaborano o non rispettano gli standard umanitari.  

Ieri Fausto Biloslavo sul Giornale avrebbe smontato le accuse di Open Arms all’Italia di collusione con la Guardia costiera libica e di corresponsabilità nella più recente tragedia, quella del caso Josefa e della madre e del bambino annegati. Perché questa guerra dell’informazione?

A me pare più verosimile la versione ricostruita da Biloslavo che quella della Ong in questione. Ma a parte il caso specifico, è assolutamente vero che è in corso una guerra di informazione in cui molte Ong sono parte in causa e giocano una partita che va ben oltre il loro mandato umanitario, divenendo attori politici di uno conflitto asimmetrico. Come è vero che c’è una campagna mediatica contro la Guardia Costiera libica, volta prevalentemente ad ostacolare le azioni italiane di assistenza e collaborazione ai libici. 

Torno alla domanda: perché? E a chi giova?

Chiaramente qualcuno non vuole ricostruire la Libia ed ha capito che è proprio sul mare che si gioca la partita dello state building libico. Tornando alle Ong, bisogna sempre tener presente che, nonostante siano attori non governativi, esse possono fare politica anche in maniera molto attiva ed efficace.

Un esempio?

Basti ricordare il caso delle Ong turche contro Israele e l’incidente della Mavi Marmara. Delle tante Ong che sono passate nelle acque del Mediterraneo ve ne sono state di tutti i tipi, anche di quelle dai profili molto oscuri e inquietanti. Comunque ognuna fa storia a sé e va giudicata in base a come opera e a chi li finanzia. 

L’Italia può fare una politica autonoma in Libia e in Africa e sottostare a una politica coordinata a livello europeo?

L’Italia deve avere assolutamente una politica autonoma in Libia e in Africa. Anche perché una politica europea non c’è e non ci sarà a lungo. Il coordinamento europeo equivale spesso alla subordinazione alle politiche estere di un paio di altri Paesi Ue che le idee verso l’Africa le hanno chiarissime. Detto questo, per noi l’Europa deve essere un moltiplicatore della nostra politica estera autonoma, non un terreno di scontro. A volte mi sembra che andiamo contro l’Europa perché non abbiamo chiara la nostra linea ed i nostri interessi o, spessissimo, alle ambizioni mancano i mezzi. E pensiamo che il problema sia Bruxelles. Una sana visione nazionale degli affari internazionali ci renderà nel lungo periodo più europeisti, non meno europeisti. Perché dell’Europa abbiamo bisogno assoluto. 

Qual è la via di questa “sana visione nazionale”?

Dobbiamo solo uscire da sotto il tavolo e sederci attorno, assieme agli altri Paesi. Ma per far questo abbiamo una lunga strada di efficientamento della nostra pubblica amministrazione, che spesso non è all’altezza della sfida. Assieme a un altrettanto lungo percorso culturale dell’opinione pubblica per ritornare a pensare alla politica estera sulla base degli interessi nazionali. Interessi che, ovviamente, includono anche l’idea di Europa.  

(Federico Ferraù)





© RIPRODUZIONE RISERVATA

I commenti dei lettori

Ultime notizie

Ultime notizie