CERN/ Con Lucio Rossi nella “caverna” di Atlas (che riparte)

- int. Lucio Rossi

Visita al Cern di Ginevra per vedere di persona come si lavora in questo grande centro di ricerche. LUCIO ROSSI illustra in questa intervista ci spiega ogni cosa

atlas_R439 Atlas

Per capire il Cern bisogna viverci un po’. Dall’esterno si possono conoscere i programmi e i risultati ma il bello è capire da dove vengono, come si raggiungono, come si può arrivare a puntare al premio Nobel o finire sulla copertina di Time, come è accaduto dopo la scoperta del bosone di Higgs a Fabiola Gianotti (che si sta preparando ad assumere la carica di Direttore Generale del grande Centro ginevrino). 

Per arrivare a questi traguardi conta il lavoro scientifico, la preparazione, la genialità; ma contano molto anche le relazioni umane, il clima, la disponibilità personale. E per cogliere queste bisogna andare lì, in quella grande area, parte sopra e parte sottoterra, a cavallo tra Svizzera e Francia; ed entrare in questo villaggio-laboratorio, che nei giorni scorsi ha aperto le porte a ilsussidiario.net

Tre giornate non bastano certo per visitare tutto; ma possono dare la visione di un organismo gigantesco nelle sue strutture e nella sua organizzazione (21 stati membri, 2500 dipendenti e circa 10mila scienziati che vi accedono da tutto il mondo) ma dinamico e aperto alla novità. Potete vedere gente che lavora a tutte le ore, finestre con la luce sempre accesa, gente (in gran parte giovani, l’età media del Cern è 26 anni) che discute animatamente al bar, che è dovunque aggrappata al Pc o che si aggira attorno a macchine enormi confondendosi tra le apparecchiature, i cavi e i display. Ma c’è anche che si dà appuntamento (tramite le tradizionali bacheche, oltre che email e Facebook) per vedere un film o si prepara ad assistere a un concerto di musica classica.

Quello attuale è un momento particolarmente frizzante, come ci hanno detto accogliendoci la stessa Gianotti, il Direttore della ricerca Sergio Bertolucci e Lucio Rossi, coordinatore del progetto High Luminosity LHC, che poi ci accompagnerà nella visita: dopo due anni di sosta, il grande acceleratore LHC, il Large Hadron Collider, è quasi pronto per ripartire per il secondo ciclo di operatività (che qui chiamano in gergo il secondo “run”) che inizierà in questo mese di marzo e durerà tre anni.

Perché viene riavviato? «Perché non basta – dice Rossi – quello che abbiamo scoperto nel 2012. Il bosone di Higgs che abbiamo trovato non si spiega da solo e dobbiamo andare alla ricerca di ulteriori conoscenze per capire perché ha la massa che ha. Una delle spiegazioni più belle, che magari fra un anno potremmo confermare, è quella basata su una teoria detta della supersimmetria, secondo la quale, per dirla in breve, ad ogni particella corrisponde una particella supersimmetrica, molto più massiva. Questa potrebbe anche essere la chiave per rivelare la materia oscura, alla quale fisici e astrofisici stanno intensamente dando la caccia. Potrebbe, non si sa. Ma se così fosse, accadrebbe che il nostro acceleratore, oltre a rivelarci oggetti come il bosone di Higgs, che si era già ipotizzato, riesce a farci vedere anche cose di cui non si poteva immaginare l’esistenza; esattamente come è accaduto a Galileo, che col cannocchiale ha visto i mari della Luna, già noti, e i satelliti di Giove che non sospettava esistessero».

Il tour con Lucio Rossi tocca tre luoghi emblematici di quello che avviene in un megalaboratorio come il Cern: la fabbrica dei magneti, uno dei quattro esperimenti e la sala controllo. E la visita non poteva che iniziare proprio dai magneti, dalla Large Magnet Facility: è il regno di Rossi, che ci descrive quello che c’è dentro i lunghi tubi blu con l’entusiasmo e l’accuratezza con cui un appassionato descrive un opera d’arte: «c’è una bellezza anche in queste macchine perché non sono solo macchine; ed evidentemente noi la percepiamo ancor più perché la bellezza emerge dalla relazione tra un soggetto e un oggetto e non basta la forma per stabilirla».

Qui i magneti vengono costruiti o ricostruiti, utilizzando le migliori attrezzature delle migliori industrie; ma anche mettendo all’opera i migliori “artigiani”, come ad esempio i saldatori: «Succede in LHC come è successo per la costruzione delle grandi cattedrali medievali: qui il risultato della costruzione è assicurato principalmente dall’insieme dei giovani che vi si dedicano senza riserve; ma anche dalle maestranze tecniche, che ci mettono il cuore, l’intelligenza e una grande capacità di fare, di costruire, di mettere in funzione. Soprattutto durante i periodi di fermo dell’acceleratore, l’esperienza e l’abilità costruttiva che qui si conquista diventano preziose per riparare e realizzare i magneti che diventano superconduttori alla temperatura dell’elio superfluido, cioè a circa 271 gradi centigradi sottozero». 

La seconda tappa è la Sala controllo del Cern, dove gruppi di ingegneri e di fisici si alternano 24 ore su 24 intorno a quattro isole di computer circondate da maxi schermi silenziosi e ricchi di grafici. Qui si controllano sia le varie parte del percorso delle particelle – che subiscono una successione di accelerazioni entro anelli più piccoli prima di arrivare nei 27 km della circonferenza di LHC – sia tutte le infrastrutture del Cern, come pure la criogenia, cioè il sistema di raffreddamento dei magneti superconduttori. Nei mesi scorsi la macchina è stata progressivamente raffreddata «per arrivare al superfreddo necessario per avere i magneti superconduttori: siamo a circa 1.8 kelvin (cioè quei -271 °C), una temperatura vicinissima allo zero assoluto e inferiore a quella dell’universo. È impressionante pensare che abbiamo 40mila tonnellate di materiale alla temperatura che l’universo, nella sua espansione, realizzerà tra circa 10 miliardi di anni». 

Durante il pieno funzionamento della macchina, le particelle (i protoni) vengono iniettate in LHC “a pacchetti”: la macchina viene riempita con 2800 pacchetti in successione, ognuno dei quali contiene tra i 100 e i 150 miliardi di particelle. I fasci di particelle circolano in due anelli in senso opposto e, nei punti dove sono collocati i quattro apparati sperimentali, vengono fatti collidere. Fino a quel momento, le operazioni si svolgono in tempi piuttosto brevi: la produzione dei fasci e la loro accelerazione nelle prime macchine è questione di qualche decina di secondi; il riempimento di LHC richiede circa venti minuti, la successiva accelerazione altri 20 minuti. In pratica, da momento in cui si è pronti per l’iniezione delle particelle a quando avvengono le prime collisioni passano meno di due ore. 

«Da quando iniziano le collisioni la sala controllo non può più intervenire: la palla passa ai quattro apparati sperimentali (Atlas, CMS, LHCb e Alice) che accendono i loro rivelatori e le collisioni vanno avanti per un periodo variabile dalle sei alle dieci ore. Al termine, i fasci sono talmente dilatati e con bassa densità che è conveniente estrarli e ricominciare un nuovo ciclo». Il pregio di LHC è di poter accelerare le particelle a un’energia elevatissima: «l’obiettivo è di portare i fasci a 7 TeV (migliaia di miliardi di elettronvolt) e quindi ottenere collisioni a 14 TeV. Nello scorso mese di dicembre i magneti superconduttori di un primo settore di LHC hanno raggiunto per la prima volta le prestazioni necessarie per far circolare fasci di protoni a 6.5 TeV». 

Infine arriviamo all’edificio dell’esperimento Atlas, uno dei “quattro grandi occhi”, come li chiama Rossi, di LHC. «Il nostro è un vedere speciale. Non vediamo il bosone di Higgs o meglio è questo il modo di vederlo: un modo indiretto, per una particella che vive in un tempo incredibilmente piccolo tale che non ci sarebbe modo di vederla; il bosone però decade prima in una particella Z (un altro tipo di bosone) e poi in altre dette muoni, una specie di cugini maggiori degli elettroni. Dall’esame dei muoni, elaborandone le tracce con gli strumenti della fisica teorica e con la potenza dei computer, possiamo risalire al bosone di Higgs e alle sue caratteristiche. Possiamo quindi arrivare ad essere certi di cose che non vediamo direttamente, facendo convergere tutta una serie di dati, di indizi , di segnali che ci porta  ragionevolmente a fare quelle affermazioni».

Anche Atlas ha la sua sala controllo, che su grandi schermi presenta ciò che sta “vedendo” l’esperimento. Sopra gli spaccati dell’apparato sperimentali appaiono le tracce delle particelle prodotte durante le collisioni e che attraversano i vari rivelatori (in questo momento sono solo gli onnipresenti raggi cosmici, non essendoci ancora le collisioni). Ci sono diversi tipi di rivelatori, ognuno dei quali può segnalare una caratteristica delle particelle che lo attraversano. I grandi display riportano i diversi dati raccolti dai rivelatori che di ogni evento misurano il tempo, la carica, l’energia, la posizione. 

Come si fa ad analizzare tutti gli eventi raccolti? Ad ogni secondo viene raccolto 1 Petabyte (un milione di miliardi di byte) di dati ma ce ne sono 320 milioni in uscita: questo perché c’è una prima intelligenza che fa automaticamente una selezione e trattiene solo gli eventi che hanno caratteristiche interessanti per ciò che si sta cercando. I dati vengono registrati e sottoposti a una prima fase di elaborazione e poi mandati alla rete di computer esterni, la cosiddetta Grid (griglia) che permette di condividere capacità di calcolo collegando i centri di calcolo nazionali e delle singole università sparsi in tutto il mondo.

Il gran finale della visita è la discesa nella “caverna” di Atlas che, come tutto l’acceleratore, è un impianto sotterraneo. Scendiamo a 93 metri di profondità, dove è collocata un’apparecchiatura dalla forma complessiva di un grande cilindro orizzontale, lungo 46 metri, con un diametro di base di 25 metri e un peso totale di 7000 tonnellate. Dalla nostra postazione possiamo vedere una delle due estremità, dove ci sono i grandi i rivelatori di muoni: è un’impressionante insieme di contenitori, tubi, quadri, interruttori, connettori, sistemi di sicurezza e un enorme quantità di cavi (anche se quelli che vediamo sono una piccola parte dei 3000 km del cablaggio totale di Atlas). 

Ancora una volta, come nella fabbrica dei magneti, un grande lavoro di ingegneria; ma necessario per far sì che, quando nei prossimi mesi i protoni si scontreranno a 13 TeV, le idee dei fisici possano essere sottoposte a severe ma efficaci verifiche. 

(Mario Gargantini)








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