AFRICA/ 2. L’abc contro l’Aids? I numeri dicono che funziona

- Pier Alberto Bertazzi, Filippo Ciantia

Secondo studi e ricerche condotte sul campo, non è affatto vero che il preservativo sia lo strumento risolutivo della lotta all’Aids. E le critiche che hanno investito, talvolta anche in modo pretestuoso, le parole di Benedetto XVI sono prive di fondamento

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All’inizio del suo viaggio in Africa, Benedetto XVI è stato sommerso da critiche di ogni provenienza, comprese numerose cancellerie di paesi occidentali, per aver affermato, facendosi interprete delle speranze e delle aspettative del continente, che non sarà l’utilizzo del preservativo a risolvere il problema dell’Aids. Così, mentre Zapatero si è affrettato a promettere l’invio di un milione di preservativi per contribuire alla lotta all’Aids, Bernard Kouchner, ministro degli Esteri di Parigi, ha dichiarato che la posizione del Papa «rivela poca comprensione della reale situazione dell’Africa». Sarà davvero così?

Innanzitutto, il cenno all’Aids e alla reali possibilità di contenere il flagello fa parte di una preoccupazione di ordine più generale, centrata sull’evangelizzazione e sul senso profondo del messaggio cristiano. Ma se è così, ogni accenno – quelli fatti finora, ma anche quelli che dovrebbero seguire – alla salute e alla malattia non potrà che collocarsi sullo sfondo di una più profonda preoccupazione per il bene dell’uomo e per il suo sviluppo. Quello sviluppo che, seguendo la Gaudium et Spes, non può limitarsi alla moltiplicazione dei beni e dei servizi, cioè a ciò che si possiede, ma deve contribuire alla pienezza dell’essere dell’uomo. Lo stesso Benedetto XVI nell’udienza generale del 16 agosto 2006 spiegava: «Il progresso può essere progresso vero solo se serve alla persona umana e se la persona umana stessa cresce; se non cresce solo il suo potere tecnico, ma cresce anche la sua capacità morale».

Mancanza di salute e crescita: il caso Aids

Il panorama sub-sahariano è impressionante. In questo 10% della popolazione mondiale si concentra il 66% dei casi di infezione da Hiv. La proporzione di popolazione infetta supera spesso il 5% ed in alcuni casi il 20%. Il trattamento dell’infezione è costoso, ma efficace. Programmi internazionali hanno cercato di garantire nei Paesi più poveri la terapia anti-retrovirale (Art) ad almeno il 50% di quanti ne necessitano entro il 2005, ma solo il 20% è stato raggiunto; importanti progressi, invece, sono stati compiuti nella prevenzione e profilassi della trasmissione materno-fetale. Negli ultimi anni, in alcuni di questi Paesi sub-sahariani è stato notato un declino, per molti inatteso, della frequenza di Hiv negli adulti. È il caso dell’Uganda che, secondo dati Onu, ha avuto ultimamente uno sviluppo notevole anche se fragile e ineguale. Il suo punteggio Hdi (Human development index) si è incrementato, al pari di Cina e Bangladesh, di circa il 20% a partire dal 1990. Questo dato di sviluppo potrebbe di per sé spiegare l’andamento migliorativo della epidemia di Hiv/Aids.

Ma c’è un altro dato di rilievo, comune ad altri Paesi quali Zambia, Senegal, Kenya, Zimbabwe, Giamaica, Thailandia e Repubblica Dominicana, che ugualmente hanno mostrato segni di declino dell’epidemia, ed è il tipo di politica adottata per la lotta a Hiv/Aids. Come ha spiegato Edward Green, dell’Harvard Center for Population and Development Studies, i più rilevanti risultati in tema di prevenzione dell’Aids sono stati ottenuti nei Paesi che hanno puntato non solo sulla diffusione di preservativi, ma anche su programmi di Primary Behavior Change, attraverso formazione ed educazione. Il primo tipo di approccio si è dimostrato efficace nei gruppi ad alto rischio nei Paesi occidentali, ma non nei Paesi dove il rischio è diffuso nell’intera popolazione.

Una lezione dai Paesi in via di sviluppo

In quei Paesi si è dimostrato vincente il modello di prevenzione originalmente sviluppato in Africa. È basato su tre principi, indicati dalle lettere A, B e C. A, ovvero Abstain, astieniti da rapporti sessuali in età molto giovane, non iniziare un’attività sessuale precocemente; B, come Be faithful, ovvero sii fedele, non cambiare continuamente partner; C, ovvero usa il Condom in modo corretto e continuo. Nel 1991 durante la conferenza internazionale sull’Aids a Firenze il presidente ugandese Museveni spiegava così la scelta politica del suo Paese: «Credo che la migliore risposta alla minaccia posta dall’Aids sia riaffermare pubblicamente e con forza la stima e il rispetto che ogni persona deve al suo prossimo. I giovani devono imparare le virtù del controllo di sé, della non immediatezza del piacere e talora del sacrificio». E in Uganda la frequenza di infezioni Hiv nella popolazione è scesa dal 15% nel 1991 al 5% nel 2001, mentre nell’intera Africa sub-sahariana, secondo Unaids, la frequenza media di infezione Hiv nella popolazione si va riducendo: da 7,5% nel 2003 a 7,2% nel 2005.

L’approccio ABC è stato considerato con interesse negli ultimi anni e discusso su riviste internazionali autorevoli, incluse The Lancet, Science, British Medical Journal. In questa discussione è stata messa in luce l’importanza di tutti e tre gli aspetti, nel loro insieme, ma anche la loro diversa rilevanza ed efficacia a seconda dei diversi segmenti o tipi di popolazione: tenendo conto dei risultati raggiunti, per i giovani la misura più rilevante sembra la A, per gli adulti la B, mentre la C ha la maggior rilevanza nei gruppi ad alto rischio, data la loro avvertenza e coscienza del problema, o comunque nei Paesi con epidemie concentrate e non diffuse all’intera popolazione (per esempio Cambogia e Thailandia).

L’«impegno» dell’Occidente

L’impatto del programma di prevenzione ABC risente naturalmente di molte condizioni di contesto quali povertà, mancanza di educazione, instabilità residenziale, migrazione forzata, ineguaglianza di diritti tra uomini e donne, etc. Molti Paesi in Africa soffrono di tali condizioni, e ciò rende ancora più importante non coltivare l’illusione che la questione si risolva soltanto con una distribuzione capillare di preservativi: il loro uso corretto e continuo ha ben poche applicazioni in situazioni di tale drammaticità. In ogni caso, i 700 milioni di abitanti dell’Africa sub-sahariana stanno ricevendo annualmente oltre 700 milioni di preservativi, ma la curva epidemica dell’infezione ha cominciato a subire un calo solo quando si è messo in atto un programma centrato sulla responsabilità della persona, sulla sua capacità di riconoscere il bene, sulla leale e simpatetica considerazione delle condizioni particolari nelle quali il programma andava applicato.

L’Occidente si sta impegnando a fornire all’Africa farmaci e condom. È questo il segno di un impegno concreto o di un disimpegno? È il modo efficace di aiutare la soluzione del loro problema o di un nostro problema? È sufficiente occuparsi del virus e non delle condizioni sociali, culturali, economiche, di vita quotidiana, nelle quali il virus prospera? L’esperienza, anche scientifica, sembra dire di no.

A quali condizioni lo sviluppo produce salute

L’esperienza dell’Aids nei Paesi del Terzo mondo mostra in primo luogo che lo sviluppo produce salute non quando riversa sul pubblico i suoi prodotti tecnico-scientifici, per quanto avanzati, ma quando quello sviluppo ha un popolo, e non una casta (sia essa scientifica, economica o politica), come protagonista. Un popolo, cioè persone portatrici di una storia e di un ideale di bene. Le “moltitudini” sono artificiali, i popoli sono reali. C’è, a questo proposito, una recente tagliente affermazione del pur controverso presidente del Sud Africa, Thabo Mbeki: «È ovvio che, qualunque sia la lezione che dovremmo o potremmo trarre dall’Occidente a proposito della grave questione dell’Aids, la sua semplice imposizione al mondo africano sarebbe assurda e illogica».

La seconda lezione è che ci si deve basare sull’evidenza, e non solo sull’applicazione di principi ritenuti a priori efficaci. Di ciò che è successo in Africa con il programma ABC ben poco si è detto e tantissimo si è taciuto. È comprensibile: i punti A e B hanno ben pochi vantaggi economici da portare alle grandi corporate. Ma c’è dell’altro. Ed è l’atteggiamento di esclusione dalle dinamiche dello sviluppo di fattori e protagonisti non “abilitati”. Cosa può venire di realmente utile in campo medico-sociale da Paesi ancora in via di sviluppo, da culture “popolari”, non ossequienti alla vulgata dominante? Come può essere credibile un approccio basato su qualcosa di diverso da condom e farmaci? Eppure, dovremmo essere in tempi di evidence-based medicine, cioè di sviluppo e diffusione di pratiche e di misure di prevenzione e terapia sulla base dell’evidenza della loro efficacia non a priori, ma in specifici contesti.

La terza caratteristica da considerare con attenzione è che si è trattato di un approccio rivolto alla persona e alla sua responsabilità, non alle masse. Un approccio che della persona coltiva e valorizza la capacità di riconoscere il bene, per sé anzitutto e per la società in cui vive, e di agire e costruire coerentemente a esso. Sfortunatamente, invece, il giudizio più diffuso è che l’Aids trovi facile terreno nel fatalismo endemico degli africani, e che perciò la lotta alla malattia sia essenzialmente un dovere morale dei governi occidentali. Questo atteggiamento è non soltanto odioso, ma anche inefficace, come il programma ABC ha messo in luce. L’efficacia è inscindibilmente connessa alla valorizzazione della responsabilità, cioè alla capacità di diventare protagonisti della ricerca e della realizzazione, anche in campo sociale, di quel bene che urge nel profondo di ciascuno.

Il programma ABC ha avuto inaspettatamente (per molti) successo proprio perché legato alla vita dei popoli dove si è svolto, sostenuto dalle loro risorse (una concezione del vivere, anzitutto), adeguato al contesto di applicazione e capace di rispettare i diritti umani nel senso più profondo: le attese e i desideri presenti nei loro cuori.







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