AFGHANISTAN/ Il caro prezzo di garantire la sicurezza in un paese in bilico

- Gian Micalessin

Ieri il caporal maggiore Alessandro Di Lisio ha perso la vita. Il paradosso di una missione dove le nostre truppe proteggono un esercito chiamato, in teoria, a garantire la sicurezza di un paese e della sua popolazione. Tutto si deciderà il 20 agosto, data delle elezioni

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È un inferno e può soltanto peggiorare. Almeno fino al prossimo 20 agosto, fino a quelle cruciali elezioni presidenziali destinate a diventare la prima cartina di tornasole per valutare la nuova politica di Barack Obama e degli alleati della Nato. Se, all’indomani del 20 agosto, la maggior parte degli afghani avrà raggiunto le urne, deposto le schede ed eletto, in maniera più o meno democratica, un nuovo presidente allora si sarà raggiunto un primo timido obiettivo. Se le elezioni si trasformeranno in caos, paura ed ecatombe i talebani potranno incominciar a cantare vittoria.

La vita del caporal maggiore Alessandro di Lisio si è consumata lungo quest’impervio tragitto politico e militare. Quel tragitto – nel caso di noi italiani – dovrà continuare a fare i conti con le insidie di Farah, la provincia più calda e turbolenta fra le quattro del settore occidentale affidato al nostro comando. In quella  provincia i talebani marciano gomito a gomito con quelli di Helmand, la roccaforte integralista dove 4000 marines stanno cercando di sloggiare i  guerriglieri del Mullah Omar.

La teoria dei vasi comunicanti rappresenta in questo caso il nocciolo del  problema. Sottoposti alla pressione della macchina statunitense, le bande degli insorti integralisti si spostano inevitabilmente sull’asse nord occidentale, dove possono contare sul sostegno di clan e tribù solidali e omogenei. «Gli ordini partono tutti da Quetta in Pakistan – spiega un ufficiale italiano responsabile dell’intelligence all’interno delle nostre forze speciali – non c’è bomba o attentato contro di noi che non segua gli ordini della shura talebana, il comando degli insorti con sede in quella città pakistana. Gli ordini di colpire noi o gli americani arrivano sempre dallo stesso vertice».

Insomma siamo nell’ingranaggio e non ne usciremo tanto facilmente. Farah rappresenta, del resto, il cruciale passaggio ad ovest su cui viaggia l’oppio di Helmand, la principale zona di produzione dell’Afghanistan, e quello prodotto nella stessa Farah, dove le narcopiantagioni garantisco un quinto del raccolto nazionale. Per spegnere questo vulcano di guerra e narcotraffico il comando italiano può contare, compresi anche gli alleati spagnoli, sloveni e lituani, su non più di 3000/3500 uomini. Tutti insieme non bastano a garantire la sufficienza di quattro province vaste quanto il nord Italia. Diventano una forza irrisoria se si realizza che le truppe in grado di combattere e muoversi sul  territorio non superano effettivamente le 600/800 unità.

A Farah insomma i nostri soldati devono accontentarsi di portare a termine azioni mirate e non possono certo illudersi di sigillare il territorio. E gli alleati dell’esercito afghano, male armati e peggio addestrati, non sono in grado di fare la differenza. E a volte diventano il problema nel problema.

La colonna guidata dal mezzo del caporal maggiore Alessandro di Lisio rientrava ieri da una missione di presidio a difesa di una caserma in costruzione continuamente attaccata dagli insorti. Quella missione fatale, condotta su percorsi ripetitivi a più di 50 chilometri dalla base su un territorio insidioso e complesso, è il paradosso di una sfida dove le nostre truppe proteggono un esercito chiamato in teoria a garantire la sicurezza di paese e popolazione.   







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