ARTICOLO 18/ L’esperto: ci vuole più dell’abolizione per creare nuovo lavoro

- int. Mario Mezzanzanica

Perché effettivamente il mercato occupazionale si sblocchi è necessario, secondo MARIO MEZZANZANICA, non continuare a permettere che tutto il peso della ricerca gravi su chi cerca lavoro

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Non dà cenni di tregua il dibattito in corso sull’articolo 18; da una parte, c’è chi dice: non si tocca. Ogni modifica in materia di licenziamenti priverebbe di significato anni di lotte in difesa dei diritti dei lavoratori. Sul fronte opposto c’è chi ritiene il suo superamento, la sua abolizione o una qualunque modifica la chiave di volta per sbloccare il mercato occupazionale. Poi, a sorpresa, arrivano i dati dell’Ocse; secondo i quali in realtà, già adesso, licenziare, in Italia, è facilissimo. Gli indici dell’istituzione che registrano la rigidità nella protezione del lavoro (Strictness of employment protection) pongono il nostro Paese a 1,77, sotto la media mondiale di 2,11. Al top troviamo la Germania, con un indice di 3.0, mentre all’ultimo posto gli Stati Uniti, la cui facilità di licenziamento è pressoché illimitata, con un indice pari a 0,17. Come stanno, allora, le cose? Lo abbiamo chiesto a Mario Mezzanzanica

Secondo l’Ocse, in Italia è molto più facile licenziare che molti altri Paesi. Le risulta?

Le regole di oggi sono tali per cui il licenziamento singolo può essere fatto, ai sensi dell’articolo 18, solo per giusta causa. Nel caso si determini una crisi aziendale o cessioni di rami d’azienda, ci possono essere licenziamenti collettivi. La facilità di cui parla l’Ocse può dipendere dal fatto che il numero delle piccole imprese sotto i 15 dipendenti, alle quali l’articolo 18 non viene applicato, è molto elevato.

Da cosa nasce, quindi, il dibattito sull’articolo 18?

È legato a battaglie e conquiste per la tutela dei lavoratori fatte negli anni ’70, quando il mercato del lavoro era costituito prevalentemente da grandi imprese. É, tuttavia, evidente che oggi i tempi sono cambiati.

In che senso?

Per intenderci: un tempo, una persona restava in un’azienda per l’intero arco della propria vita professionale. Oggi i dati dimostrano che il ciclo di vita di un contratto a tempo indeterminato nel settore privato è mediamente di dieci anni.

Facilitare i licenziamenti e superare l’articolo 18 incrementerebbe l’occupazione?

Non credo. Anzitutto, finché non si modifica anche il mercato del pubblico impiego, la situazione resterà pressoché invariata. In ogni caso, come hanno dimostrato i Nobel dell’economia, vincitori lo scorso anno, la facilitazione dell’occupazione è legata al miglioramento del tasso di occupabilità.

Cosa intende?

Significa che occorre sanare la discrepanza tra domanda e offerta e consentire che, nel corso della propria vita professionale, i lavoratori ricevano una formazione tale per cui possano rimanere appetibili sul mercato. Oggi, inoltre, nonostante la disoccupazione rimanga a tassi molto elevati, l’offerta di lavoro da parte delle imprese che non trova risposta continua a essere altissima.

Perché, in sostanza, in Italia, è difficile trovare lavoro?

Tutto grava sulle spalle del singolo in cerca di lavoro, che è l’unico vettore dell’informazione, senza che vi sia un sistema in grado di supportarlo nella ricerca. Sia all’ingresso che laddove sia costretto a cambiare. Per cui, non è tanto importante parlare della modifica dei contratti, quanto l’esser capaci di rendere quei servizi necessari a un mercato del lavoro connotato da un alto tasso di dinamicità e di mobilità delle persone. Attraverso una rete, ad esempio, che sappia mediare tra la domanda e l’offerta. Sul tema dei servizi per il lavoro, finora, si è investito pochissimo.

Lei, sul fronte legislativo, lascerebbe le cose come stanno?

Non credo che l’articolo 18 sia determinante. Alcuni cambiamenti sul fronte normativo, tuttavia, si possono fare. È possibile migliorare il contratto di apprendistato, e demandare alcune parti della contrattazione al livello locale, per facilitare la partecipazione dei lavoratori alla vita delle imprese.

Quali sono gli ostacoli che frenano il loro sviluppo?

Ci sono, anzitutto, problemi di natura burocratico-amministrativa. Per metter in piedi una piccola azienda occorrono, ad esempio, più di 40 adempimenti. C’è, inoltre, una scarsa propensione da parte del sistema finanziario a sostenere quelle imprese che hanno capacità e idee. Il tessuto socio-economico, infine, è limitato dal fatto che stenta ad essere in grado di esportare all’estero.

Cosa è stato fatto, a oggi, per agevolarle?

In questi anni, l’unico tentativo a favore dello sviluppo delle piccole e medie imprese è stato portato avanti dall’onorevole Vignali.  A parte questo, è dieci anni che è tutto fermo. Nonostante tutti riconoscano che, negli ultimi 20 anni, hanno rappresentato il settore che ha sostenuto l’occupazione.

Trova che vi sia equilibrio, nel nostro Paese, tra flessibilità in entrata e in uscita?

La flessibilità in entrata implica che le imprese che puntano sulle opportunità di lavoro propongano dei contratti flessibili, mentre quella in uscita implica che, in un momento in cui non è in grado di svilupparsi correttamente e ha bisogno di ridurre il personale. La prima, oggi, nel sistema è garantita abbondantemente, mentre la seconda è difficilmente contemplata nelle imprese sopra i 15 dipendenti.

La Germania è il Paese dove è più difficile licenziare. È anche il Paese europeo la cui economia è più solida. Come è possibile?

Bisogna tener presente che i tedeschi non hanno un contratto di apprendistato rigido come il nostro e, al contempo, tutte le imprese hanno quote di apprendisti da dover inserire tra i dipendenti. Si determina, per i giovani, l’effettiva possibilità di prendere parte a un’esperienza lavorativa, della durata compresa tra i sei mesi e un anno mentre le imprese si impegnano a favorirli i questo in una sorta di patto sociale fortissimo.

Gli Usa, al contrario, sono il Paese in cui licenziare è più facile. Nonostante le difficoltà, resta pur sempre la prima economia mondiale.

Il mercato del lavoro Usa dispone di una maggiore libertà di azione, ma, al contempo, è il Paese nel quale si evidenziano le maggiori disparità sociali. Sia alla persona che all’impresa è data l’assoluta libertà di favorire il mercato. Il fatto che il lavoratore sia consapevole di come stiano le cose, fa sì che si dia in continuazione da fare. In momenti di congiuntura economica negativa come questi, tuttavia, si è determinato anche per loro una grave sofferenza occupazionale.

 

(Paolo Nessi)





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