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Home » Lavoro » SPILLO/ Lavoro, la “controriforma” da fermare

  • Lavoro

SPILLO/ Lavoro, la “controriforma” da fermare

Massimo Ferlini
Pubblicato 23 Maggio 2016
Jobs_Act_OmbrelloR439

Infophoto

Vi sono due problemi legati alle innovazioni introdotte con le nuove norme sul lavoro che rischiano di innescare un processo di controriforma, spiega MASSIMO FERLINI

Vi sono due problemi legati alle innovazioni introdotte con le nuove norme sul mercato del lavoro che rischiano, se male affrontati, di innescare un processo di controriforma nella prassi attuativa. Il primo segnale viene dalla questione dei voucher. Come noto sono stati introdotti per permettere di pagare, rendendoli regolari, prestazioni professionali di limitato valore. Gli esempi più semplici sono il taglio dell’erba e la piccola manutenzione, la colf o la babysitter, ossia collaborazioni prestate alle famiglie. Ma anche per le imprese può essere utile per pagare prestazioni limitate nel tempo o senza continuità.


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I limiti sono posti sul massimo di reddito percepibile tramite voucher dal singolo lavoratore. Se sotto i limiti, non entrano a fare parte della denuncia dei redditi. L’incrocio di verifica è facilmente attuabile in quanto i voucher sono nominativi e denunciati all’acquisto da parte di chi li utilizzerà.


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L’espansione dell’utilizzo si è avuto perché sono diventati la forma di pagamento per i vendemmiatori occasionali sulla base di un accordo specifico. Negli ultimi mesi si è registrata un’ulteriore espansione che ha messo in moto reazioni che chiedono per lo più l’abolizione dello strumento invece di renderlo ancora più utile.

La tesi degli oppositori è che il voucher favorirebbe e coprirebbe nuove forme di lavoro nero. Nel settore della logistica (magazzini, traslochi, ecc.), come nell’agricoltura, l’uso dei voucher per pagare parzialmente le ore lavorate servirebbe a regolarizzare i rapporti che in realtà coinvolgerebbero i lavoratori per molte più ore e questa parte sarebbe pagata in nero o peggio gestita dai soliti intermediari abusivi. Sarebbero perciò i voucher dei facilitatori di nuove forme di caporalato e di moderno schiavismo.


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Come dire che si scarica su una forma innovativa e utile di pagamento dei lavori temporanei l’incapacità di reprimere forme di sfruttamento del lavoro che sono illegali e che l’incapacità di promuovere nuove tutele per i braccianti di queste nuove aziende agricole sia nelle forme di pagamento e non nella difficoltà sindacale a organizzare rappresentanze adeguate ai tempi.

Per fortuna il ministro Poletti ha grande esperienza diretta essendo stato un grande cooperatore e non ha ceduto a proteste populistiche. Sta invece predisponendo un intervento che renda più tracciabile e controllabile la nominatività dei rapporti di lavoro pagati con voucher. Sarà così possibile attuare controlli incrociati per intervenire dove l’uso del voucher copre in realtà un rapporto di lavoro che dovrebbe utilizzare altre forme contrattuali, ma rilancerà l’uso di uno strumento utile a rendere regolari lavori che altrimenti non avevano tutele.

Il secondo problema riguarda i fondi interprofessionali. Come noto, le aziende possono versare una quota dei fondi Inps a fondi organizzati dalle associazioni di rappresentanza per poi utilizzare il capitale accumulato per corsi di formazione per i propri dipendenti. I fondi così creati hanno avuto in questi anni una gestione discutibile. La programmazione dei corsi e la selezione dei formatori ha spesso creato sacche di interessi corporativi chiusi. Un’interpretazione relativamente al fatto che si tratta di fondi pubblici assegnati a strutture privatistiche ha fatto sì che siano uscite linee guida per i fondi che portano a dover ricorrere alle regole degli appalti pubblici per l’affidamento dei servizi e la selezione dei formatori.

Non sono giurista per entrare nel merito della valutazione generale che comunque non coinvolge solo i fondi interprofessionali ma molti istituti che sono forme privatistiche ma finanziate con fondi pubblici. Anche i consorzi per le raccolte differenziate dei rifiuti, per fare un esempio altrettanto noto, ricadono nella stessa fattispecie, e dovranno ripensare le regole di funzionamento. Nel caso della formazione continua per le aziende si corre però il rischio di rendere il sistema molto rigido e riportare a una burocratizzazione un modello che già aveva troppe rigidità e un eccesso di centralismo. L’obbligo di ricorrere ai sistemi di appalto pubblico rischia di rafforzare gli aspetti negativi con il risultato di rendere ancora più complicato il ricorso ai fondi per la formazione continua dei lavoratori.

Può essere però che non tutto il male venga per nuocere. Nell’ambito delle possibilità offerte dalla corretta gestione di risorse pubbliche si possono organizzare i servizi rendendo centrale il ruolo delle imprese e la loro domanda di formazione. Il sistema come noto è quello di organizzare la selezione di pianificatori e formatori attraverso sistemi di accreditamento, organizzare servizi sulla base di costi standard creando così pacchetti formativi con costi certi, ma anche lasciando all’impresa la possibilità di scegliere autonomamente come costruire i propri corsi. Il fondo diventa così sede di programmazione e valutazione della efficienza ed efficacia delle risorse erogate e delle capacità degli enti accreditati.

Centralismo, rigidità e coalizioni di interessi corporativi sarebbero così messi da parte. Trasparenza e rispetto delle norme pubbliche sarebbero assicurate non penalizzando l’efficienza dei servizi erogati.

La governance dei fondi è partecipata dalle organizzazioni di rappresentanza di imprese e lavoratori. È una sfida che li riguarda, tocca a loro dimostrare che è possibile gestire in modo diverso le risorse pubbliche assegnate senza burocratizzare i servizi, ma anzi contribuendo a modernizzare un settore ancora chiuso.


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