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Home » Economia e Finanza » FINANZA/ Addio austerity, il messaggio di Johnson che l’Italia non coglie

  • Economia e Finanza

FINANZA/ Addio austerity, il messaggio di Johnson che l’Italia non coglie

Paolo Annoni
Pubblicato 15 Febbraio 2020
Boris Johnson (Lapresse)

Boris Johnson (Lapresse)

Nel Regno Unito c’è stato un rimpasto di Governo: Johnson vuole archiviare l’austerity, che Ue e Italia continuano a seguire

Il “rimpasto” di governo consumatosi giovedì in Inghilterra non ha fermato la corsa della sterlina che viaggia ai massimi sull’euro dal referendum. Boris Johnson ha rimpiazzato il “ministro delle Finanze”, il cancelliere dello scacchiere, sostituendo Sajid Javid con Rishi Sunak. La mossa risponde sia alla volontà di stringere la presa sulla “infrastruttura” del potere con la nomina di un “fedelissimo” in una posizione evidentemente chiave, sia soprattutto a quella di imprimere una svolta alla politica economica.


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Negli stessi giorni in cui avveniva l’avvicendamento Boris Johnson annunciava piani infrastrutturali ciclopici. Il senso quindi è porre fine alla “austerity” con un ministro delle Finanze che adotti una politica economica, scusate la sintesi brutale, “trumpiana” fatta anche di spesa pubblica. La svolta non ha fermato né la corsa della sterlina, né si è fatta sentire sui titoli di stato inglesi. Esattamente come le politiche di Trump non hanno fatto scappare gli investitori dal dollaro che anzi è sui massimi contro l’euro degli ultimi tre anni.


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Ci rendiamo conto che spiegare cosa sta succedendo alla luce del dibattito italiano sia difficile, ma ci proviamo. È verissimo che il mercato ormai esula da qualsiasi fondamentale e da qualsiasi rapporto con l’economia reale; è verissimo che nessuno sa, sempre ammesso che sia possibile, come rientrare dall’esplosione dei debiti pubblici che si è prodotta dal 2008. Non solo. Le sfide geopolitiche sono evidenti e lo scontro tra Cina e Stati Uniti è destabilizzante. In questo scenario l’unica cosa che conta è che l’economia reale sopravviva, che le aziende non chiudano, che continuino a investire, che la disoccupazione, in un modo o nell’altro, rimanga bassa. Quando il mercato presenterà il conto o quando l’economia reale comincerà a soffrire per il “disassamento” di equilibri economici decennali bisogna farsi trovare il più in salute possibile. Partendo dal presupposto che i debiti sono tutti “esplosi”.


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I capitali globali continuano a fluire verso gli Stati Uniti, verso il dollaro e per ora perfino verso una borsa che sta su valutazioni lunari. Questi capitali lasciano l’Europa “dell’austerity” e della Germania con uno stato finanziario che in teoria sarebbe super-salutare. In questa confusione quello che conta è che il denominatore, nell’equazione debito su Pil, sia in salute e continui a esistere. Un creditore anche di una “distressed security” alla fine vuole sapere solo una cosa: e cioè quale sia il sottostante.

C’è un altro elemento delle politiche economiche “trumpiane” ed è la deregulation; il lavoro fatto con l’accetta e la motosega contro la burocrazia e le regole che ammazzano le imprese. Soprattutto in una fase in cui la produzione lascia la Cina e poi l’Europa bisogna farsi trovare pronti per intercettare gli investimenti globali. Le imprese vogliono stabilità, poca burocrazia e tendenzialmente poche tasse. Tutte cose che nell’Unione europea non si vedono. Pensiamo solo alla sovrapproduzione di regole e regolamenti oppure al sogno, spesso ideologico, dell’economia verde che pesa come un macigno sui conti delle imprese e sulle tasche dei consumatori.

In Italia siamo allo zero assoluto. L’impressione fortissima è che per molti e soprattutto per questo Governo valga la tesi che le imprese siano un dato scontato e che quindi si possa girare la vite sulle tasse e sulla burocrazia perché più di tanto non scappano. Questo è un errore devastante sia perché non passa giorno che non si senta di uno stabilimento che chiude, sia perché si ignora la marea di volatilità finanziaria ed economica che sta arrivando.

Vi facciamo un esempio. Ieri il Primo ministro annunciava 20 miliardi e passa di investimenti al Sud. Chi li fa in uno Stato in cui il danno erariale è imprescrivibile, con una burocrazia terrorizzata, un processo burocratico e autorizzativo folle, fatto nel presupposto che chi intraprende è un delinquente in potenza, condito dalle ultime lunari modifiche sul codice degli appalti? Oltretutto con l’incubo del combinato disposto degli efficientissimi tribunali italiani con la cancellazione della prescrizione. Questo è l’ultimo Paese in cui si vorrebbe investire a meno di eroismi.

Liberarsi dalla sovracostruzione impazzita dell’Unione europea è una tentazione cui i britannici non hanno resistito e che sta contagiando altre nazioni europee. È un fatto abbastanza evidente di cui non ci accorgiamo semplicemente perché il nostro establishment non riesce a pensare fuori dalle categorie dell’Unione. Non è comunque una buona scusa per non invertire la rotta anche per un Governo che pensa di essere nel 1989. Non comprendere la realtà o non vederla di solito non ti risparmia dal conto che poi arriva.


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