Tutti vorremmo un Lunedì dell’Angelo

A pensarci bene tutti vorremmo che ogni giorno non fosse soltanto un lunedì. Ma un lunedì dell'Angelo

La tradizione del Lunedì dell’Angelo affonda le sue radici in una prassi medioevale: tra X e XIII secolo nacquero e si diffusero nei monasteri, per la formazione dei novizi, forme teatrali sacre all’interno della liturgia dell’ottava di Pasqua. Queste rappresentazioni erano chiamate “Quem quaeritis?” e riprendevano il dialogo tra l’angelo e le donne giunte al sepolcro, favorendo una forte attenzione teologica e spirituale attorno alla figura dell’Angelo che, nella percezione popolare successiva, diventa elemento eponimo dell’intera giornata.



Il punto di interesse per l’origine di questa tradizione, tuttavia, non è solo storico o culturale: è come se a un certo punto raccontare la Pasqua non bastasse più e, soprattutto nel contesto formativo del monastero, fosse necessario entrare in contatto con quel mistero.

Molto spesso si sente, nei conciliaboli che contano, che la fede ha anzitutto necessità di essere narrata. Eppure la narrazione, che è indubbiamente affascinante, fornisce un’immagine ridotta della fede, un’immagine spesso esortativa di una decisione morale. Si rischia così una sorta di narcisismo religioso in cui la preoccupazione principale è essere all’altezza delle cose che si raccontano e non partecipare dell’oggi di una Presenza.



Questo ai medioevali era chiarissimo e le forme teatrali sacre all’interno della liturgia avevano proprio l’obiettivo di restituire alla gente la possibilità di entrare in contatto con qualcosa di vivo, con un’esperienza.

Se questa è la premessa di fondo che ci porta alle origini antropologiche della festa, conviene domandarsi perché – fra tutti gli elementi possibili – è proprio l’Angelo ad attirare l’attenzione del popolo dell’età di mezzo.

Qui, forse, è possibile capire qualcosa circa la qualità dell’esperienza che era proposta. Aristotele, che come è noto si affermò proprio in quei secoli come filosofo di riferimento per la cristianità, distingueva negli Analitici Secondi tra un scire per causas e un scire qua re, sosteneva che esistesse una differenza tra il conoscere attraverso le cause – razionalmente – e il conoscere attraverso una qualche realtà che si inserisce nella vita.



L’esistenza si muove molto di più nell’alveo di questo secondo tipo di conoscenza: conosciamo di più attraverso un affetto, un amore, un’amicizia che attraverso uno studio o un libro. L’obiettivo delle rappresentazioni teatrali nell’ottava di Pasqua non era, dunque, quello di fornire il contatto con un’esperienza meramente emotiva, bensì quello di permettere alle persone in formazione di attingere a una conoscenza: l’Angelo attirava perché introduceva nella storia una conoscenza nuova. La Resurrezione è l’introduzione nella realtà di una conoscenza nuova, di un fatto nuovo, non riducibile a opinione.

Pasolini, nel 1974, scriveva che il vero problema della Chiesa è l’ignoranza, ossia la presunzione di poter sopravvivere nella temperie dei tempi con quello che essa sa già e con quello che essa già fa. Conoscere ciò che oggi segna la storia, conoscerlo in profondità e nelle sue istanze ultime, coincide – lo dice anche un profetico passo del documento conciliare Gaudium et Spes – col conoscere di più Dio, con l’entrare di più in contatto con Lui.

L’Angelo oggi è la storia, ma è anche l’umano, un umano che in questo tempo possiamo accostare con strumenti che fino a pochi anni fa erano impensabili e di cui non si può avere paura. Non si può temere la propria fragilità, il proprio male, il proprio peccato, e non si può riempire il cammino dei singoli di maldicenze che paralizzano il cammino di tutti, cercando di dare vesti candide alla propria invidia e alla propria ambizione: far diventare motivo di scandalo un’umanità ferita significa rinnegare – di fatto – l’evento stesso della salvezza.

La storia e l’uomo sono oggi quell’Angelo che introduce nel tempo la notizia nuova della Resurrezione, che reintroduce nel nostro sguardo dominato da ogni tipo di moralismo, la freschezza di qualcosa che c’è e che si muove. Qualcuno che c’è e che si muove. Eppure quell’Angelo è ancora di più: è l’Angelo di Dio. Viviamo tempi in cui di tutto siamo curiosi tranne che di Dio.

La storia, l’uomo e Dio dovrebbero essere il tormento della Chiesa, ciò che la tiene sveglia e non la fa assopire al tepore di rassicuranti discordie e diatribe. I resoconti medioevali ci dicono che commozione e stupore assalivano gli astanti quando sul palcoscenico della rappresentazione compariva l’Angelo: essi intuivano che si apriva per loro l’occasione di una conoscenza nuova, di una comprensione più vera del dolore, dell’amore, dell’amicizia.

A pensarci bene tutti vorremmo un’esperienza così, tutti vorremmo poter sussultare di gratitudine davanti al nostro tempo apparentemente ingrato, davanti al nostro umano apparentemente disumano, davanti ad un Dio improvvisamente vicino. A pensarci bene tutti vorremmo di nuovo poter essere curiosi. Tutti vorremmo che ogni giorno non fosse soltanto un lunedì. Ma un lunedì dell’Angelo.

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