A Bergamo due mostre di fotografia: "Echi di strade perdute" e "Attraverso l'Italia". Salbitani e Merisio raccontano il mondo, l'Italia e il loro io
Oltre alla coppia di importanti mostre di fotografia che in questi mesi offre Venezia (fino al 30 novembre alla Ikona Gallery William Klein. Encore. Still. Ancóra e fino al 6 gennaio a Le Stanze della Fotografia sull’Isola di San Giorgio Robert Mapplethorpe. Le forme del classico), Bergamo, che è anch’essa Terra di San Marco, ne ospita due che valgono una visita: fino al 16 novembre all’ex Monastero di Astino, Echi di strade perdute, dedicata all’opera di Roberto Salbitani, e fino al 31 dicembre Attraverso l’Italia. Fotografie di Pepi Merisio, morto nel 2021.
Dopo anni di pubblico silenzio, che ne hanno fatto un “maestro in ombra” della fotografia italiana, Salbitani è tornato ora con un importante libro e 52 immagini in bianco e nero, molte delle quali inedite, dove protagonista è il paesaggio urbano (Parigi, Londra, Barcellona, Roma, Milano, Venezia, Bologna, Torino…), dal centro alle periferie, agli spazi di transizione fra città e campagna.
Il catalogo, edito da Electa, compendia soprattutto due lavori, La città invasa e Autismi, di quello che il curatore Corrado Benigni definisce giustamente come “uno degli autori più affascinanti della nostra fotografia, non solo per il suo vissuto personale e le sue scelte radicali ma anche per il risultato estetico delle sue immagini“.
Salbitani si presenta da sé, senza parole di circostanza e con grande sincerità: “Sono un uomo attraversato da fatti emotivi e anche irrazionali. In realtà io non penso di essere mai stato in ombra: ho vissuto la mia vita, senza ricercare a tutti i costi una “visibilità” (bisogna farsi vedere in giro, andare a tutte le inaugurazioni, conoscere gli assessori…). Io sono sempre stato un orso, e ho fatto la vita che volevo fare, durante la quale la fotografia mi ha accompagnato. Con i miei colleghi non sono mai stato in competizione. La parola ombra però è interessante, perché io sono in effetti affascinato da queste aree: luci e ombre si sono sempre compenetrate bene nella mia fotografia, e anche nella vita ho accettato entrambe”.
Il viaggio di Salbitani
Il viaggio, l’attraversamento dei luoghi che questa bella mostra documenta “era una scusa”, dice Salbitani, per esistere appieno: “Viaggio è piacere del vivere. Per tutti viaggiare è un modo di uscire da una vita grigia, scontata, gravata da responsabilità e problematiche: quando ti metti in viaggio ti senti libero e protagonista. E all’occhio libero il mondo appare sempre nuovo. Anche se poi uno fa anche esperienze difficili, non è che la vita sia tutta bella o facile. Nel ‘lavoro’ del vivere, nel capolavoro del vivere bisogna accettare anche le sofferenze”.
Lui è stato “il ‘viaggiatore errante’, quello classico, che mi ha sempre appassionato nei libri, il vagabondo, che si imbatte in luoghi stupefacenti. Ma devi errare senza scopo, dormire all’aperto, perderti”. Crudo e ironico, intellettuale e immediato, Salbitani ama l’avventura: “Avviarsi nella casualità della vita, degli eventi, questo fa il fotografo: prende la macchina ed esce di casa. Entrare in rapporto con l’imprevedibile, il non programmato mi dà un piacere sia fisico che intellettuale. Il mondo è la sorgente di tante cose che mi possono meravigliare. In fondo io sono un divoratore di vita, e la mia fotografia ha seguito questa dimensione. Sono stato un viaggiatore invaso dalla città, avventuroso ma anche distaccato, un po’ come quando si va treno e si osserva dal finestrino: Federico Fellini diceva che il treno è una culla, un viaggio filante. Ma io sono stato anche un ‘viaggiatore immobile’, a Venezia per esempio: essendo quella città un luogo estremamente immaginativo, non ho mai avuto bisogno di scoprirla tutta, di andare ovunque: già solo un’area limitata mi riempie di stimoli. Il ‘viaggiatore immobile’ cerca di tirare fuori da sé le proprie immagini mentali”.
Nell’attraversare queste città in bianco e nero, registrando piccole rivelazioni improvvise ai margini tra luci e ombre, appunto, le strade piene di ammiccanti cartelloni pubblicitari e di senzatetto di Salbitani, di corpi esposti nudi al vento e Cristi sepolti, animali selvaggi e uomini soli, quartieri abitati da manichini sinistri, annunciatori di un’umanità virtuale, propagandistica, illusoria, erano il percorso attraverso il quale il fotografo cercava di “capire la gente com’era, di rispettarla, trovando un modo di rapportarmi con gli altri. Sono cresciuto povero di soldi ma mi sono sempre più arricchito man mano che estendevo il mio bagaglio di relazioni. Io penso che finché uno è ribelle e rivoluzionario, ‘se la racconta’ da solo, in qualche modo cerca di imporre il suo mondo al mondo esterno”.
“Dopo un po’, crescendo, ti accorgi che il mondo è più duro di te, non ce la fai a cambiarlo, e quindi la vita diventa la ricerca di un equilibrio in questa lotta costante, in un insieme di situazioni sempre un po’ contraddittorie. E siccome il mondo esterno non mi piaceva, soprattutto quello cittadino, e andavo in cerca piuttosto del mondo naturale, attraverso la fotografia io ho cercato di trasfigurarlo. La fotografia mi ha aiutato a non vedere il mondo com’era. Dunque, se vogliamo, la fotografia è stata per me una maschera, un filtro tra me e il mondo reale. Mi portavo a casa quelle apparenze per trasfigurarle in camera oscura, le manipolavo e così il mondo diventava un po’ mio. La fotografia è stata anche un elemento terapeutico, una medicina soffice che, a pensarci, mi ha aiutato per tutta la vita”.
Pepi Merisio
Altra mostra interessante aperta a Bergamo è Attraverso l’Italia. Fotografie di Pepi Merisio, un ricco viaggio per immagini che attraversa l’Italia dal boom economico agli anni 80, presso il Museo della fotografia Sestini, negli spazi dell’ex Convento di San Francesco in Città alta: una raccolta imponente, 140 fotografie in bianco e nero e (qua e là) a colori, che raccontano l’impegno di Merisio nella documentazione editoriale delle regioni italiane, ricordando soprattutto la lunga sua collaborazione con il Touring Club per la celebre collana Attraverso l’Italia, pubblicata tra il 1956 e il 1972.

Un’occasione anche questa per riflettere sulle trasformazioni del nostro paesaggio, nelle sue declinazioni naturali e antropizzate, a cavallo della grande trasformazione degli anni 60: dalla vita post-medievale sui contrafforti delle Alpi alla Tonnara Florio dell’Isola di Favignana, dai Sacri Monti piemontesi alla processione dei Turchini di Procida, dal Palio di Siena ruspante all’amato Santuario mariano di Caravaggio, la mostra offre una carrellata semi-antologica attraverso tre decenni di lavoro di un grandissimo autore che è stato un filosofo di formazione e soprattutto un antropologo di primo livello, “laureato” sul campo. Merisio, come ricorda il curatore Denis Curti, ha saputo “privilegiare il perimetro emotivo di una memoria che si è fatta collettiva” e che ancora oggi dà il volto, assieme alle immagini di altri grandi autori di quel trentennio cruciale, all’autocoscienza stessa che abbiamo del nostro paese.
Il prezioso Archivio Merisio, che il fotografo bergamasco ha lasciato al Museo Sestini, meriterà certamente nei prossimi anni analisi magari più settoriali ma più approfondite.
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