SCUOLA/ Cosa dire quando “è colpa dei cristiani se gli aerei hanno centrato le torri”?

- Martine Gilsoul

I problemi legati alle sfide educative nelle "Zone di Educazione Prioritaria" di Bruxelles sono tanti. Cosa succede se i cristiani perdono il "sapore"? MARTINE GILSOUL

belgio_polizia_molenbeek_lapresse_2018 Nel quartiere di Molenbeek a Bruxelles (LaPresse)

“Io lo so, me lo ha detto papà, è colpa dei cristiani se gli aerei hanno centrato le torri”. Ecco quanto esce della bocca di un mio piccolo allievo di prima elementare, di origine marocchina, all’indomani dell’11 settembre. Presa dallo sconcerto chiedo una spiegazione: “Ma sì, i cristiani uccidono i musulmani, bevono champagne e hanno le statue”. Al che tiro fuori la croce che porto sempre al collo ma che nascondo ogni mattina prima di entrare a scuola (non per i genitori ma per i colleghi), e dico: “Ma sai che io sono cristiana, sono cattolica”. E con un sorriso disarmante mi sento rispondere: “Ma non è la stessa cosa, tu sei diversa”.

I problemi legati all’integrazione e alle sfide educative nelle “Zone di Educazione Prioritaria” di Bruxelles sono tanti. Ma penso che spesso è mancata a tanti giovani lì scolarizzati la fortuna di avere incontrato qualcuno, insegnante o educatore che sia, che abbia detto loro “io sono cristiano” o che lo abbia dimostrato con le sue scelte, nel modo di volere il loro bene e chiedere loro di dare il massimo. Ho visto durante la mia breve esperienza troppi insegnanti diventati trasparenti (siamo tutti uguali, a che serve affermare la nostra identità?) e seguire il vuoto dell’ondeggiare della moda pedagogista che presenta un programma al ribasso senza assumersi nessuna responsabilità educativa.

Non è stato facile, i colleghi mi hanno spesso presa in giro e non so se sarei stata capace di perseguire le mie scelte a lungo, ma quando si sceglie di diventare insegnante occorre avere anche il coraggio di andare controcorrente. E questo coraggio mi veniva dalla consapevolezza di essere investita di un ruolo di “passeur” non solo di conoscenze, ma anche di un’eredità che è quella del paese dove alcuni di loro erano nati e dove gli altri erano arrivati per trovare un rifugio dopo avere vissuto le atrocità della guerra.

Non è solo la mia fede, è anche la mia coscienza professionale ad avermi spinto a non seguire i pregiudizi e, senza cadere nell’angelismo, ad aver fiducia nelle potenzialità di ognuno, anche quando sapevo che i fratelli maggiori avevano preso strade sbagliate (i bambini piccoli raccontano senza filtro, e così si veniva a sapere che un fratello era uscito di prigione oppure che un altro aveva portato a casa una “nuova” macchina, ma che si doveva sbrigare a cambiare il “numero”).

Era ovvio assumere la mia identità, cultura e religione. Quando mi chiedevano in quale moschea andavo a pregare o se non avevo paura di andare all’inferno dato che non sono musulmana, rispondevo che non ero musulmana, che andavo in chiesa per pregare e che speravo di andare in paradiso lo stesso. Le mie risposte erano “arrischiate”, dato che ero in una scuola comunale molto “laïcarde” e la religione era confinata alle due ore settimanali in programma (i bambini potevano scegliere tra religione cattolica, morale laica o religione musulmana). Consideravo fondamentale mostrare loro che esiste un’altra “arte di vivere” guidata da altri valori che riflettono il rispetto di ogni persona.

Consideravo il mio lavoro come una “missione educativa” e non mi fermavo alla trasmissione di saperi (parola tra l’altro non politically correct perché oggi non si può parlare di “trasmissione”, ma solo di “costruzione” di saperi). Forse sarò stata idealista, come dicevano i miei colleghi, alcuni disillusi e convinti che “con questi bambini non c’è niente da fare”. Li portavo al Musée Royal d’Art Ancien, alla biblioteca (sono convinta che il piacere della lettura in quei quartieri ti può salvare la vita), mi sono rifiutata di festeggiare Halloween perché i miei allievi meritavano il meglio, e preferivo andare da sola con la mia classe a salutare il Re e la Regina che venivano in visita nel Comune. Per me si trattava di farli uscire da un ghetto dove si può fare tutto senza dovere parlare francese e senza sapere come si vive al di là del canale o del viale che separa il quartiere della città.

Volevo introdurli alla bellezza e ascoltavamo insieme della musica classica. Presentavo loro in poche parole il compositore e ascoltavamo i brani. Ci hanno preso gusto, mi chiedevano spesso di mettere “la musica bella” discutendo tra di loro per scegliere quale compositore ascoltare. Sarà stata una perdita di tempo per “questi” bambini di cui molti parlavano a stento francese, come mi è stato detto? 

A gennaio scorso sono tornata a Molenbeek per vedere un mio ex allievo recitare nello spettacolo che ha scritto, nel quale racconta come ha vissuto la morte del fratello, assassinato di fronte alla scuola in un regolamento di conti quando lui era solo un bambino. Alla fine di fronte a tutti ha detto “Madame, non ho dimenticato niente. Lei ci faceva ascoltare Jean-Sébastien Bach”. Mi ha scritto: “Lei è stata per me un ponte verso la cultura che non conoscevo. Una boccata d’aria! Dopo Bach ho scoperto Brel, Piaf, Brassens… Questo grazie a Lei perché ci ha interessato a tutto ciò che non si trovava nelle nostre case né nei nostri quartieri”.





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