CAOS MIGRANTI/ Tutte le domande a cui l’Europa non risponde

- int. Paolo Quercia

L'Italia rischia di rimanere stretta tra gli sbarchi via mare e i confini chiusi via terra. Si teme una rottura dell'Europa di Schengen ma del vero problema nessuno parla. PAOLO QUERCIA

migranti bologna LaPresse

A nemmeno una settimana dal Consiglio europeo dedicato ai flussi migratori, dopo l’accordo Merkel-Seehofer e l’Austria che si prepara a sigillare la sua frontiera meridionale, l’Italia rischia di rimanere stretta tra gli sbarchi via mare e i confini chiusi via terra. Si teme una rottura dell’Europa di Schengen, ma del vero problema nessuno parla, dice al Sussidiario Paolo Quercia, analista di politica estera, direttore del Cenass (Center for Near Abroad Strategic Studies). L’Europa ha fatto qualcosa di peggio del dare costante prova della sua inettitudine politica. “Ha ceduto a trafficanti e criminali il controllo sul proprio stato di diritto”. 

Cominciamo dagli effetti per l’Italia dell’accordo raggiunto in Germania.

Potranno esserci, ma è un tema di importanza relativa. La crisi migratoria non è una partita che può essere vinta dai ministeri degli Interni della Ue, questa è solo un’illusione. E’ una partita di politica estera e sicurezza che va affrontata nei paesi di transito dell’Africa subsahariana e in Libia, proprio là dove la Ue è assente. 

Vuole dire che proprio là dove i paesi europei hanno interessi comuni, sono più incapaci di agire?

Sì, questi flussi migratori, incontrollati nella quantità e nella qualità, non sono gestibili se non a migliaia di chilometri dalle coste, attraverso una politica africana della Ue che non c’è ma che avrebbe dei punti di interesse comune. Se si lascia il fenomeno diventare ingestibile e anarchico, gli interessi dei Paesi europei finiscono invece per divenire divergenti, ritrovandosi alla fine l’uno contro l’altro.  

Le divisioni europee hanno una tradizione consolidata. Nel 2017 si parlava di redistribuzione dei richiedenti asilo attraverso un sistema di quote obbligatorie. Niente da fare. 

Si, ma il problema non può essere come redistribuire un fenomeno che si subisce. Il fatto che Paesi come la Germania e l’Austria lo scorso anno abbiano messo un tetto al numero massimo di richieste di asilo politico (una contraddizione in termini sul piano umanitario) è un fatto comprensibile ma che ha certificato il fallimento di una politica comune dei flussi e lo scetticismo verso ogni possibilità di una loro regolazione. Di fatto ciò equivale a dire che gli immigrati in eccesso rispetto a tali numeri massimi devono restare nei paesi di primo ingresso come l’Italia, senza nessuna forma di distribuzione, anche a costo di far saltare il sistema di libera circolazione europeo. 

L’accordo raggiunto nell’ultimo Consiglio europeo?

È l’accordo di un’Europa divisa, che non ci avvantaggia a meno che l’affermazione del principio di non rivedere Dublino e la chiusura dell’Europa alle migrazioni secondarie non sia abbinata ad un’adeguata azione esterna volta alla riduzione dei flussi attraverso misure di integrated border management da fare nei Paesi a sud della Libia. Un’azione simile a quella che è stata fatta con la Turchia per il corridoio balcanico. Questo dovrebbe pretendere l’Italia. Ma per farlo dovrebbe avere essa stessa un’idea di come rendere il problema migratorio un dossier della politica estera comune della Ue e non un aspetto della politica interna dei Paesi europei. La crisi migratoria è un dossier dei ministri degli Esteri. Quando se ne occupano i ministri degli Interni, è ormai troppo tardi. 

“Un’Europa senza confini interni funzionerà solo se saranno protetti i confini esterni”, ha detto ieri il cancelliere austriaco Kurz. La tutela delle frontiere esterne è un obiettivo realistico?

Visione corretta ma miope. Ripeto. Le chiavi della crisi migratoria non sono né nella frontiere interne della Ue, né in quelle esterne, né in quelle marittime. La frontiera europea è nel Shael, nel Corno d’Africa, in Niger, in Chad. E per quanto riguarda l’Italia in Eritrea e Nigeria, i due principali Paesi di origine dei flussi. 

Dunque per lei la frontiera meridionale europea non sono le nostre acque territoriali.

In senso giuridico sì, in senso politico-strategico no. Il collasso della Libia e l’affermazione dei gruppi criminali trans-nazionali nel Sahel che determinano e compongono la pressione migratoria verso l’Europa ha spostato i confini del Mediterraneo. Esso di fatto oggi confina con il Golfo di Guinea e il Corno d’Africa. In un contesto così, litigare se i flussi devono essere arginati a nord o a sud del Brennero, o a nord o a sud di Malta, mi pare un problema secondario. Ne saremo tutti travolti se non capiamo che l’Europa deve assumere una dimensione geopolitica e mettersi a fare politica estera e di sicurezza a migliaia di chilometri di distanza dalle sue frontiere. Ma qui emerge tutta la debolezza e la superficialità della costruzione europea. 

Ci faccia un esempio di quanto sta dicendo.

La rotta balcanica non è stata chiusa per l’intervento delle forze di polizia al confine tra Slovenia e Croazia o tra Ungheria e Serbia, ma perché la Germania ha messo tutto il suo peso di Stato nazionale dentro l’Unione Europea spingendola a fare un patto di politica estera con la Turchia. Ma bisogna essere disposti a fare un grand bargain, mettendoci dentro flussi migratori che interessano a noi e altre cose che interessano a loro. Comunque, è la politica estera e di sicurezza che difende le frontiere dell’Europa da spostamenti di popoli, non i doganieri o le forze di polizia che possono gestire solo flussi ordinari e quantitativamente limitati. Che per quanto riguarda le coste italiane, ad esempio, stimo essere di qualche decina di miglia di persone l’anno al massimo. Sopra queste cifre siamo in crisi migratoria, ove vince il sacro egoismo degli Stati, rompendo non solo i meccanismi di solidarietà tra i Paesi europei ma l’Unione stessa.

La sua previsione?

Più che una previsione una valutazione. Abbiamo commesso degli errori politici gravissimi tra il 2013 ed il 2014. Quando invece di tentare di correre ai ripari abbiamo pensato a “salvare l’onore dell’Europa”, gettando invece le basi per una sua crisi senza precedenti e forse compromettendone definitivamente la costruzione. Furono le politiche di quegli anni in buona parte responsabili di aver fatto esplodere la crisi da cifre preoccupanti ma ancora gestibili (come i 40mila sbarchi nel 2013) al mezzo milione sbarcato tra il 2014 ed il 2016. In quegli anni abbiamo superato il livello di crisi e siamo entrati in quello del dramma.

In molti — l’Oim, Repubblica e Corriere, organizzazioni non governative — dicono, numeri alla mano, che l’emergenza non c’è. Lo provano gli sbarchi di questo 2018, paragonati ai due anni precedenti.

Guardi, diceva Don Chisciotte — o meglio, scriveva Cervantes — che i fatti sono spesso nemici della verità. Che senso ha paragonare la riduzione del 2018, che c’è ed è eredità dell’azione di Minniti, con i valori fuori controllo degli anni precedenti, che non possono essere presi a paragone di una situazione di normalità? La normalità non è data dai 181.337 sbarchi illegali del 2016, per cui se ne faccio meno le cose vanno bene. La normalità, se così si può dire, è data dalla media degli sbarchi illegali registratasi sulle coste italiane tra il 1990 ed il 2012. Che è attorno alle 10.000 persone l’anno. Questo è il dato fisiologico di riferimento. Oltre due, massimo tre volte questi volumi dobbiamo parlare di un fenomeno fuori controllo. Ma anche le singole rotte che salgono o scendono di anno in anno perché chiusa una se ne riapre un’altra, ci danno un quadro parziale. Dovremmo ragionare su concetti più ampi. Quant’è la pressione demografica illegale complessiva verso l’Unione Europea? Quanta gente cerca di entrare o restare in Europa non avendone titolo o abusando di un titolo?

Cosa intende?

Frontex ci dice che quelli che sbarcano illegalmente vengono respinti alle frontiere terrestri o marittime, o agli aeroporti, ma che quelli che entrano legalmente ma rimangono illegalmente in Europa sono un numero impressionante, superiore alle 700mila persone all’anno.

Questo che cosa le dice?

Significa che c’è una domanda enorme a risiedere illegalmente nell’Unione Europea da Asia, Africa, Medio Oriente che la Ue non riesce più a gestire. Parlare di assenza di una crisi migratoria in un contesto come questo mi sembra quantomeno singolare. 

Come giudica l’operato del governo Conte?

E’ presto per valutare, perché ha preso in mano il dossier solo da poco tempo. Ed i risultati ancora non ci sono. La retorica specie del ministro degli Interni è molto forte. Sicuramente ha contribuito a cambiare la percezione di quello status di sonnolenta passività dell’Italia verso il fenomeno, un po’ furbesca, di chi pensava di cavarsela da una crisi epocale come questa pensando di lasciarsi attraversare come un grande paese di transito che avrebbe poi, in un modo o nell’altro, smistato verso l’Europa del Nord questi flussi. In questo la rinnovata assertività dell’Italia non è sbagliata. Io però abbasserei molto i toni e farei parlare i fatti. Senza dimenticare che siamo in presenza non solo di una crisi degli Stati ma anche di drammi umani di grande proporzione che meritano rispetto. E che ci serve la collaborazione di molti Paesi che agiscono da irresponsabili ma con cui un modus di collaborazione dobbiamo trovare.

I soccorsi sono lasciati alle unità della Marina, mentre non è consentito l’accesso ai porti alle navi delle Ong, che hanno avuto un ruolo decisamente ambiguo nella crisi del 2017. La stessa crisi che portò Gentiloni e Minniti a negoziare un accordo, d’estate, con i “sindaci” libici dopo avere ottenuto il placet del Vaticano.

Minniti ha fatto un buon lavoro che penso vada mantenuto e imitato, anche nelle modalità silenziose. 

Perché occorre tacere?

Perché ci vuole l’accordo di tanti soggetti, statali e non statuali, perché bisogna sporcarsi le mani, perché bisogna costruire compromessi con regimi non democratici aumentando i loro standard di gestione dei flussi. Occorre tessere in modo paiente ed avere una strategia almeno a cinque anni. Ed essere silenziosi aiuta. 

E la chiusura dei porti alle Ong?

E’ un provvedimento forte ma legittimo. Non ne farei una bandiera assoluta, ma caso per caso. Tu sì, tu no. Tu a certe condizioni. Comunque la regola è che le Ong che vogliono entrare in questa partita devono subordinare il loro operato ad una strategia nazionale che ha tante priorità, non solo quello dei salvataggi e degli sbarchi. Questo ce lo dice la nostra Costituzione e l’interpretazione data di essa dalla Corte Costituzionale, quando ribadisce l’obbligo del controllo delle frontiere e del bilanciamento degli interessi in gioco. Quello che però ora appare evidente è che per alcuni ci eravamo legati a stereotipi ed interpretazioni giuridici e politici dell’accoglienza che abbiamo visto non essere così imperativi come si riteneva e che in molti casi possono essere messi in discussione: sono venuti in luce elementi importanti, come il ruolo dei paesi di bandiera delle navi delle Ong. La bandiera della nave è un fatto che era stato trascurato, quando invece pone specifici obblighi al Paese di appartenenza della nave. Fatto il salvataggio i migranti si trovano ormai sul territorio navigante di un Paese sovrano che può essere considerato esso stesso un place of safety. Qui si pone dunque la questione che, in assenza di un porto disponibile ad accettare la nave, il paese di bandiera della nave che compie il salvataggio non può sganciarsi dalle sue responsabilità. 

Qual è la sua obiezione, esattamente?

Che è stato forzato e piegato il diritto per un bel po’ di tempo per raggiungere un fine politico: sbarcare in Italia un gran numero di persone e tamponare così l’emergenza. L’abuso delle attività di Search and Rescue (attività sacrosanta in condizioni normali) ha fatto la fortuna dei trafficanti in situazioni procurate artificialmente. Un meccanismo di salvataggio per incidenti in mare è diventato la base per costruire un business model dei trafficanti che appoggiandosi alla marina militare prima, poi alla marina mercantile e quindi alle Ong, hanno abbattuto i costi, decuplicato i volumi dei traffici, aumentato i profitti e anche — ahimè — i morti in mare. Un vero disastro. 

Perché lo chiama “modello di business”?

Perché i trafficanti studiano i nostri meccanismi di reazione, i nostri sistemi giuridici, il ruolo delle Ong, della marina mercantile o della marina militare per trovare le nostre vulnerabilità e metterci all’angolo, raggiungendo il loro obiettivo: profitto ad ogni costo e ad ogni prezzo. Sono meccanismi primitivi ma molto efficienti.

C’è qualche possibilità di intervenire nell’Africa subsahariana?

Sì, ma bisogna distinguere tra operare in Libia, che ha le sue regole ed i suoi problemi, ed operare con i Paesi confinanti con la Libia: Sudan, Niger e Chad. Qui ci sono altri problemi ma anche possibilità di intervento. E poi non dimentichiamo che per l’Italia, per il momento, il problema principale è rappresentato da due nazionalità principali, eritrei e nigeriani. Certamente, Paesi con i loro problemi che alimentano i flussi. Ma non stiamo parlando di Paesi con guerre civili e fenomeni straordinari in corso. In questi paesi dove le ragioni che spingono la gente ad andarsene potrebbero essere gestite in cento altri modi differenti. Non c’è solo l’Europa alla risposta dei fallimenti di questi Stati. 

Ci parli dell’Eritrea.

In Eritrea non c’è nessuna guerra civile. E’ un regime autoritario, reduce dall’applicazione fallita di un modello economico a impronta marxista. Non da oggi produce migliaia di persone che fuggono chiedendo asilo politico. Molte per un reale motivo politico, altre in realtà fuggono dalla povertà. La domanda che mi faccio è però la seguente: se fuggono realmente da una dittatura oppressiva, perché non restano nei campi profughi delle Nazioni Unite che sono nei paesi limitrofi, ad iniziare dal Sudan? Qui possono ottenere facilmente protezione e sostegno. Certo, vivere in un campo profughi delle Nazioni Unite non è il migliore dei mondi possibili. Ma se si tratta veramente di coloro che fuggono dall’oppressione e da persecuzioni mi sembra un miglioramento. Invece vediamo che ormai nessuno eritreo chiede più la protezione alle Nazioni Unite in Sudan. I campi vengano usati come base logistica per proseguire il viaggio verso l’inferno libico, che ha standard di diritto dell’uomo peggiore di quelli del Paese da cui fuggono. Ecco che allora gli status si confondono. Non siamo più in grado di dire chi è o cosa è un migrante o un rifugiato. La realtà è diventata ibrida e complessa e le certezze giuridiche vengono meno. 

Dove sta la soluzione?

Nella domanda che l’Europa non si pone. Esiste un diritto ad immigrare in Europa? Esiste per tutti il diritto di arrivare in Europa e lì di soggiornarvi in violazione delle leggi che ne regolano l’accesso? Premetto che ritengo entrambe le risposte legittime. Dipende da che modello di società abbiamo in mente. Ad ogni modo se esiste questo diritto, si aprano le porte a tutti. Se invece i Paesi europei ritengono che non esiste il diritto di insediarsi se non in condizioni assolutamente eccezionali e non di massa, ma di singoli con situazioni eccezionali di persecuzione, allora la Ue deve probabilmente ridefinire il suo sistema di protezione giuridico e la sua politica migratoria. 

Sta dicendo che i tempi e le sfide sono radicalmente cambiati, mentre gli strumenti giuridici sono rimasti gli stessi. 

Sì. Basti pensare ad un documento fondamentale come la Convenzione di Ginevra, fatta durante la guerra fredda e destinata a tutelare i dissidenti dal sistema del comunismo: casi come Solženicyn, la diaspora ungherese del 1956, i dissidenti di Charta 77. Tutto all’interno dell’Europa. Non si pensava ad intere popolazioni che si muovono da Asia, Africa e Medio Oriente verso l’Europa. A conferma di questo, basta citare un particolare poco noto. Quando l’Italia firmò la Convenzione, la firmò con una eccezione geografica, limitando l’impegno ad accogliere rifugiati solo per coloro che fuggivano dall’Europa. Il legislatore dell’epoca fu saggio ed accorto. Se ci pensiamo oggi, pare incredibile. Fu la legge Martelli (39/1990, ndr) a togliere l’eccezione aprendo su scala globale il diritto ad essere rifugiato in Italia. Fu un atto politico. 

Qual è la sua conclusione?

Si potrebbe dire innanzitutto che la crisi migratoria è la fotografia più plastica, e più drammatica, della stessa crisi dell’Unione Europea, incapace di concepire un pensiero strategico. 

I grandi flussi ci sono sempre stati. La storia di tanti italiani, nel secolo scorso, è una storia di emigrazione.

Questa però è artefazione della storia. Paragonare gli africani sui barconi agli italiani sui piroscafi atlantici del 900 è fare una confusione colpevole. L’italiano che con la valigia di cartone andava in Canada, Argentina, Usa o Belgio si assoggettava ad accordi tra Stati, a regole, perfino a visite mediche prima di partire. Vi erano i trattati di emigrazione tra Italia e Paesi di destinazione. Vi era un’accettazione del fenomeno che veniva regolato. Già nel Regno d’Italia c’erano regole per i minori, ufficiali sanitari nei porti, quote, prezzi fissati per i viaggi. Certo c’erano anche gli abusi e gli sfruttamenti. Ma gli Stati c’erano, regolavano ed intervenivano per punire gli abusi e per regolari i flussi in maniera volontaria e più o meno civile. Basti pensare all’emigrazione italiana verso il Belgio. Qui c’era addirittura un trattato tra i due Paesi che prevedeva un’emigrazione controllata di italiani che andavano a lavorare in miniera come contropartita dell’acquisto del carbone ad un prezzo garantito ed inferiore a quello di mercato. E nonostante questa cornice i problemi c’erano ugualmente. Oggi tutto questo è saltato, sia come qualità che come quantità. Queste sono probabilmente le peggiori e più insicure migrazioni possibili. Per i migranti e per gli Stati. 

Ci faccia capire, si spieghi meglio.

Abbiamo messo in moto delle forze economiche potentissime. Abbiamo creato un mercato immenso. E sa cosa si vende? Non il passaggio in gommone più Ong dalla Libia alla Sicilia. Non la traversata del Sahel o la fuga dall’Eritrea o da Boko Haram. Si vende il diritto ad entrare illegalmente in Europa e a restarvi legalmente in forza delle leggi e dei principi stessi dell’Unione. Di diritto o di fatto. Un bene che, una volta messo in vendita, non ha prezzo, e può essere pagato qualsiasi prezzo. Un bene che gli europei hanno delegato a soggetti privati, trafficanti, criminali di varia natura — in alcuni casi connessi con il jihadismo — che fanno profitti enormi perché vendono una cosa di cui non hanno né la disponibilità né il titolo. Non vendono un servizio logistico, ma promettono a centinaia di milioni di disperati e migranti economici la possibilità di comprare il diritto a trasferirsi illegalmente nell’Unione Europea. Una volta che questo diritto è stato messo sul mercato, non ha più prezzo. Stentiamo a capirlo, ma è questo che accade: gli scafisti non stanno vendendo un passaggio in barca, ma il diritto a risiedere illegalmente in Europa e questo diritto non gli appartiene. Ma hanno capito come sfruttare le vulnerabilità europee, in particolare usando il nostro sistema di diritti e di civiltà. Noi, ingenui e sprovveduti, abbiamo dato a criminali la possibilità di determinare chi e quante persone entrano in Europa, mettendo di fatto in vendita i nostri stessi valori. L’Europa non è né la domanda né l’offerta di questo mercato, è il bene scambiato. In questo sistema la vita non ha alcun valore e non ci sono regole, perché l’obiettivo di europeizzarsi vale ogni sopruso, prostituzione, schiavitù, mercato degli organi. Tutto viene accettato o messo in conto pur di raggiungere quell’obiettivo. 

Le frontiere sono realmente difficili da proteggere quando si sono messi in moto questi meccanismi economico-finanziari. 

E’ questo il punto. Ci sono organizzazioni criminali che organizzano viaggi anche per chi non ha nulla, viaggi che possono durare due, tre, quattro anni, nei quali nel frattempo i migranti svolgono ogni tipo di “lavoro” o subiscono ogni forma di sfruttamento e degrado. Molti sanno che è così ma partono lo stesso. Abbiamo messo in moto forze economiche di cui non comprendiamo la magnitudine. Questo è il cuore del problema: l’economia criminale e finanziaria dei flussi. Come tale può essere studiata ed in parte contrastata in vari modi. Anche ricorrendo a sanzioni economiche contro Stati o persone o entità che lucrano su queste forme di nuova schiavitù. La civiltà dell’Europa non si vede solo su come si salvano le persone in mare per poi scaricarle in qualche porto e lasciandole allo sbaraglio e ad un futuro di una integrazione quasi impossibile. Si vede anche come si contrasta questo mercato e come si smantellano i giganteschi profitti economici basati su sfruttamento e sofferenza che stanno erodendo ulteriormente le capacità già basse degli Stati dell’Africa. E sulla capacità di non cedere a trafficanti e criminali il controllo sul proprio stato di diritto. Se poi vogliamo pensare che il problema dell’Europa sia come sigillare il confine del Brennero, accogliere tutti i migranti, salvare tutti i naufraghi, obbligare Malta ad essere primo stato di disimbarco, trasformare l’Italia in un campo profughi o redistribuire forzosamente questi flussi ai quattro angoli dell’Unione siamo liberi di farlo. Ma nessuna di queste opzioni salverà l’Europa dal collasso, né risolverà i problemi dei Paesi non europei. 

(Federico Ferraù)

Paolo Quercia è curatore del volume “Migrazioni e sicurezza internazionale”, Cenass 2017. 





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