Nonostante le imponenti trasformazioni cui abbiamo assistito negli ultimi decenni, la cosa è certa. A prescindere da ogni discussione, dibattito, diatriba e parere contrario, il fatto è sicuro. Benché chiusi nel mondo virtuale, ostinati a far finta di niente, relegati in città cementificate, l’evento succederà lo stesso. Gli inspiegabili ritardi non lo cancelleranno. Arriva l’autunno e le foglie cadono.
È, per lo meno, seccante: esci di casa senza il maglioncino e hai freddo; lo porti con te e ti dà fastidio perché, invece, quel giorno fa ancora caldo. È seccante perché ci obbliga a constatare, disarmati, che le cose cambiano. E cambiano senza che noi possiamo minimamente metterci il becco. Cambiano anche se non lo programmiamo noi. Soprattutto seccante perché, se le cose cambiano, vuol dire che passano. Scorrono trascinate dal fiume del tempo.
E ti ricordi dell’antico poeta greco. Te lo hanno fatto leggere da ragazzo a scuola e allora ti sembrava strano che un tale Mimnermo si lamentasse perché la gioventù, che a te sembrava immutabile ed eterna, fosse invece destinata a passare: «Siamo come le foglie nate nella stagione fiorita della primavera, che crescono rapide ai raggi del sole; simili a queste godiamo per breve tempo del fiore della giovinezza».
Eppure confusamente capivi che aveva ragione lui e ti chiedevi che destino avrebbe avuto la tua foglia. E anche se poi, sempre a scuola, han cercato di farti credere che in fondo si tratta di un’immagine letteraria, di un puro gioco linguistico caro ai poeti delle più diverse culture, quando torna l’autunno quel «come le foglie», riappare nella sua inquietante verità. Magari nella forma dei versi di Ungaretti: «Si sta come / d’autunno / sugli alberi / le foglie».
Quando non prevale la conclusione nichilista: tutto finisce in niente, tentano di consolarti dicendo che a primavera le foglie ricrescono e tutto rinasce. Ma è un panteismo del tutto insoddisfacente. Rinasceranno pure delle foglie, ma la foglia che sono io dove va a finire? È ancora una volta Leopardi che pone la domanda giusta: «Lungi dal proprio ramo, / povera foglia frale, / dove vai tu?». Basta una foglia che cade per spingere alla domanda sul destino. Destino, cioè destinazione, scopo, meta. Siamo immersi nel tempo. Che è cambiamento, moto. Verso dove?
La saggezza del popolo cristiano sa che quel moto non è casuale: «Non casca foglia che Dio non voglia». E il cristiano Dante sapeva che quel «dove» dipende anche dalle nostre libere scelte. Per questo la grande metafora delle foglie autunnali è posta all’inizio dell’Inferno per descrivere le anime che scendono dalla barca di Caronte: «Come d’autunno si levan le foglie / l’una appresso de l’altra, fin che ‘l ramo / vede a la terra tutte le sue spoglie». E per questo su, in Paradiso, Cacciaguida, avo del poeta, parla dei beati come di un albero che «frutta sempre e mai non perde foglia».