La caduta del muro di Berlino, vent’anni fa, è stato forse l’avvenimento centrale della storia europea del secondo dopoguerra. Sia per le sue conseguenze immediate, la riunificazione della Germania, sia perché è diventata il simbolo di una svolta epocale: la fine dell’influenza sovietica su quella metà del continente che la cortina di ferro aveva innaturalmente isolato dai secolari nessi con l’altra metà.
Il 9 novembre 1989 a Berlino (almeno nella percezione simbolica che ne abbiamo; la realtà storica è ovviamente più complessa) una nuova rivoluzione, fortunatamente pacifica, segnava la fine della rivoluzione, tragica nei suoi esiti, iniziata a Pietroburgo nell’ottobre del 1917. Quell’avvenimento è stato così determinante e decisivo che qualcuno, allora, ha parlato di «fine della storia». L’euforia era alle stelle; e certamente la vita di milioni di persone è cambiata, in meglio.
Ma a vent’anni la percezione di quell’avvenimento è molto diversa. Una recente inchiesta tra i giovani tedeschi mostra una vasta ignoranza su cosa fosse la DDR e, soprattutto, una scarsa voglia di approfondire il passato. In tutti i paesi dell’ex blocco sovietico, Russia compresa, si diffonde la ostalgie, cioè la nostalgia del passato comunista, percepito come privo delle durezze e difficoltà del presente.
Forse è necessario riflettere sul fatto che l’entusiasmo provocato dalla caduta del muro aveva in sé, almeno in parte, un aspetto proprio dell’ideologia di cui si celebrava la fine. Intendo parlare dell’utopismo. Il comunismo realizzato ha sempre dato di sé l’immagine di un paradiso in terra, di una rivoluzione delle strutture sociali ed economiche così radicale e definitiva che il singolo non avrebbe dovuto fare altro che goderne felice. Anche nel più piccolo villaggio sovietico si poteva trovare, oltre che il monumento all’onnipresente Lenin, una statua con giovani operai o contadini o soldati gioiosamente soddisfatti per l’imminente conquista del “sol dell’avvenire”.
Caduto il muro, questa stessa visione utopica è sopravvissuta. Soltanto rovesciata di segno. Sarebbe stata la nuova condizione sociale e politica a garantire automaticamente la “felicità”. Anche in campo religioso si pensò che la fine delle persecuzioni avrebbe spontaneamente significato una rinascita. Ma non poteva essere così; da qui l’inevitabile delusione.
Il cambiamento reale, il cammino verso la felicità è di un altro ordine rispetto ai pur decisivi mutamenti circostanziali. È dell’ordine infinitamente più semplice e reale della vita personale quotidiana; che non si nutre di ideologie utopiche, ma di fatti semplici, concreti, apparentemente banali.
La rivoluzione autentica non si realizza rincorrendo l’abbaglio dell’utopia, che si rivela poi sempre violenta. La rivoluzione, per dirla con Péguy, è «l’effetto ben ordinato di una lunga e invincibile pazienza». Per questo «noi dobbiamo cominciare la rivoluzione sociale dalla rivoluzione morale di noi stessi». Infatti «i grandi uomini d’azione rivoluzionaria sono eminentemente dei grandi uomini di grande vita interiore, dei meditativi, dei contemplativi; non sono gli uomini del “di fuori” che fanno la rivoluzione, ma gli uomini del “di dentro”».