Così come abbiamo imparato le parole lager e gulag dovremmo renderci familiare la parola laogai, un acronimo per “Laodong Gaizao Dui” che significa “riforma attraverso il lavoro”.
È curioso come certi regimi politici abbiano un debole per il lavoro come strumento di correzione e trasformazione umana. Spediscono a “lavorare” dissidenti e criminali, nemici etnici e culturali, artisti non allineati e religiosi, prigionieri di guerra ed esponenti di classi sociali ostili con lo scopo di cambiarli, di rimetterli in riga. O anche di annientarli psicologicamente, a volte di eliminarli fisicamente.
Il che poi non è tanto razionale: perché non ammazzarli direttamente con colpi di pistola e fosse comuni come fecero i nazisti con gli ebrei in Ucraina? Ma in generale si può desumere che alle dittature piace l’auto-definizione di democrazia, così come dedicare al lavoro i campi di detenzione e pratica schiavitù. Uccidere così, senza mediazioni, fa un po’ nazista, appunto. Mentre per i comunisti il lavoro viene prima di tutto.
Laogai è l’arcipelago concentrazionario cinese e tra qui e il dieci dicembre, quando verrà consegnato a Oslo il premio Nobel per la pace, ne sentiremo parlare un po’ più del solito. Almeno speriamo, perché è sbagliato continuare a pensare alla Cina, giusta priorità di tutte le nostre economie, senza che nella testa faccia capolino questa paroletta, per ricordarci che la realtà del mondo ha sempre molte facce, alcune delle quali terrificanti.
Il premio è stato assegnato a un signore che si chiama Liu Xiaobo, firmatario del documento Carta ‘08 e per questo condannato nel dicembre scorso a 11 anni di prigione, senza poter leggere l’autodifesa davanti ai giudici, in quanto “sovversivo e criminale” (sì, è proprio il deja vu dei processi sovietici).
Il documento, ormai sottoscritto da diecimila cinesi (certo un’infinitesima goccia nell’oceano), mette al centro i diritti umani e, come nota acutamente la benemerita Asianews, il diritto alla libertà religiosa. Scrive il direttore dell’agenzia, Bernardo Cervellera: “Questo passo – un fondamento religioso dei diritti umani – è frutto della sofferenza e del carcere di molti dissidenti, tra cui anche Liu, che sono venuti a contatto con il meglio della civiltà occidentale”. Liu è molto vicino al cristianesimo, cui fa riferimento esplicito nei suoi discorsi, senza che questo significhi “conversione” (al riguardo non si sa nulla).
Tornando ai laogai, analisi pubblicate da centri per i diritti umani e dalla Fondazione occidentale omonima creata da Harry Wu (ospite del Meeting due anni fa) indicano in 50 milioni (!) i cinesi ospitati nei campi dagli anni ‘50. Attualmente sarebbero più di mille quelli in funzione, incalcolabile il numero dei detenuti, inconoscibile quello dei condannati per motivi politici o religiosi. Si sa che lavorano tanto: giocattoli, tessuti, utensili che vengono esportati in Europa -mentre negli Usa una legge vieta l’importazione di prodotti da lavoro forzato. Hanno lavorato per le Olimpiadi e forse per l’Expo di Shangai visitata da milioni di persone sbalordite dagli effetti speciali del capitalcomunismo.
In un articolo dell’Espresso (vera rarità nella stucchevole alluvione antiberlusconiana) si parla anche delle “black jails”, carceri abusive locali, semiufficiali ma non per questo meno rigorose negli scopi e nella “vita” quotidiana. Ha detto una volta il neopremiato: “Un passo verso la libertà è spesso un passo verso la prigione”. Pensiamoci tutti, almeno per il prossimo mese.