In questi giorni ho imparato una parola nuova: ludopatia. Descrive il fenomeno per cui una persona diventa succube del gioco d’azzardo. Il Corriere di settimana scorsa ha pubblicato un breve reportage da cui risulta che questa “malattia” sta assumendo proporzioni preoccupanti; si parla di un numero di affetti da ludopatia che oscilla, in Italia, tra i novecentomila e i due milioni, di un giro di soldi che supera i cinquanta miliardi di euro, di una “industria” che si posizionerebbe al quinto posto in una classifica per dimensioni e di un ingente gettito fiscale per lo Stato che ha, negli anni scorsi, autorizzato il moltiplicarsi delle macchinette da gioco, che sono ormai presenza fissa in molti bar, per non parlare delle sale appositamente dedicate.
Ovviamente si possono fare molte considerazioni di carattere sociologico: il gioco d’azzardo è, in fondo, una tassa nascosta; per i più poveri – le regioni maggiormente colpite sono quelle del Sud – si tratta di un tentativo, normalmente votato all’insuccesso, per uscire dalla miseria; è segnale di una cultura del guadagno facile e senza sacrificio; documenta l’impoverimento delle relazioni interpersonali (molti ludopatici sono anziani soli o giovani disoccupati). Tutte cose giuste e che fanno riflettere. Ma vorrei allargare la visuale e porre l’accento su un altro aspetto.
Ludopatia è neologismo composto dal suffisso “patia”, che indica una malattia, e dal sostantivo latino ludus, che significa “gioco”. In sintesi: il gioco diventa una malattia. Ma come è possibile che una delle attività più sane e confortanti della nostra esistenza – appunto il giocare – si trasformi in una patologia?
Nessuno penserebbe mai che quel bambino che gioca a pallone nei giardinetti sia un potenziale ammalato. Eppure succede; un amico che ha la passione di arbitrare partite di calcio a livello di dilettanti mi raccontava che il maggior numero delle risse sono dovute a sconsiderati genitori che aizzano i figli, insultano gli avversari, bestemmiano contro l’arbitro, creano un clima del tutto malsano. Sono dei ludopatici e non c’è da stupirsi se lo diventeranno anche i figli.
Ciò che contraddistingue la bellezza del gioco, infatti, è il suo spazio di gratuità, il suo essere “inutile”, sottratto alle preoccupazioni di quel che è necessario per vivere: lavorare, studiare, faticare. Il che significa che il giocatore è, ultimamente, distaccato dal gioco stesso, non ne è schiavo.
La perdita della gratuità nel gioco è sintomo brutto per una civiltà. Indica che si sta imponendo un generale asservimento, che si affievolisce il gusto della libertà, che proprio là dove potremmo essere più noi stessi ci ritroviamo schiavi ed eterodiretti. Ed è un impoverimento che tocca altri campi dell’esistenza. Si legge sui giornali che aumentano le cliniche per disintossicare dal sesso vissuto come droga. La stessa elementare operazione – e piacere -di mangiare ha preso le fattezze di una malattia: bulimia, obesità.
Sono le piaghe di una società opulenta, che va perdendo la percezione che lo spazio e il tempo per giocare, il cibo che ci piace, il corpo proprio e dell’altro sono dei dati, dei doni gratuiti; con cui rapportarsi gratuitamente. All’inizio sembra che poterne disporre a piacimento sia il massimo; ma lentamente l’assenza di gratuità li trasforma in padroni inflessibili. È proprio vero quel che dice un salmo: «L’uomo nella prosperità non comprende».