Il cancro dell’intellettualismo
L’intellettualismo toglie al cristianesimo la concretezza carnale, lasciandogli solo la magra evanescenza di una idea

Un lettore mi ha chiesto di approfondire il significato dell’espressione «cristianesimo intellettuale» che ho usato nell’editoriale della scorsa settimana.
Anzitutto va detto che l’intellettualismo non è una malattia che ha infettato soltanto il cristianesimo. È un’epidemia che ha intaccato gli strumenti di comunicazione e le aule scolastiche, i talk show e i chiostri universitari, il dibattito politico e le discussioni più intime.
Sostanzialmente si tratta di una operazione per cui si toglie ai sentimenti, ai pensieri, agli atti di volontà (e alle parole che li esprimono) ogni peso di concretezza e ogni realtà di avvenimento. Resta solo la buccia vuota, con la quale si ritiene di poter giocare a piacimento, perché tanto non “succede” niente. Ecco, l’intellettualismo è quel modo di pensare, di sentire, di agire (e conseguentemente di parlare) in cui non succede mai niente.
L’ha descritto con parole definitive Péguy: «Vi è un’immensa turba di uomini che sente attraverso sentimenti bell’e fatti, nella stessa proporzione in cui vi è un’immensa turba di uomini che pensa secondo idee bell’e fatte, e nella stessa proporzione vi è un’immensa turba di uomini che agisce secondo volontà bell’e fatte».
È un «intellettualismo universale», cioè una «pigrizia universale che consiste nel servirsi sempre del bell’e fatto». E così non accade mai niente; perché succede qualcosa solo se ci si imbatte e paragona con “qualcosa” che avviene al di fuori di sentimenti, pensieri, volontà già acquisiti. Qualcosa che ferisce, richiede un approfondimento, spinge a cambiare. Le idee bell’e fatte sono fatte da qualcuno. Dal potere che le sforna in continuazione perché si nutre di quella «pigrizia universale».
Veniamo all’intellettualismo specificamente cristiano. Come mai la povera reliquia del velo della Madonna giace abbandonata in una cappella laterale di Chartres? Perché sul fatto sempre nuovo della fede di un popolo che cammina è prevalso il dogma positivista della corretta analisi storica. Che nel tempo può essere sostituito da quello della morale eretta a criterio ultimo per valutare la religione o da quello della religione stessa interpretata come supplemento sentimentale delle nostre aride vite. Sempre e comunque un’idea bell’e fatta, estranea alla vitalità dinamica dell’avvenimento cristiano.
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L’intellettualismo toglie al cristianesimo la concretezza carnale, lasciandogli solo la magra evanescenza di una idea. Per questo, notava con orrore Péguy, una rocciosa litania della Madonna come turris eburnea (torre d’avorio) può essere tradotta con l’esangue e moralistico «modello di purezza». Per questo assistiamo a liturgie in cui dilaga la spiegazione “simbolica”, velo troppo trasparente sotto il quale si vede chiaramente la nudità imbarazzante del fatto che concretamente si pensa che non stia succedendo niente e si sostituisce il vuoto con ingiunzioni precettistiche. Si potrebbe continuare a lungo.
Il cristianesimo intellettualistico non regge il confronto col tempo; prima si dissecca e poi, come una crosta, si stacca dalla pelle, lasciando un segno passeggero che subito scompare. Il cristianesimo come avvenimento resta invece infitto nella profondità dell’essere.
Me l’ha scritto un’altra lettrice dell’ultimo editoriale. Ricordava il piccolo santuarietto della Madonna che sorge a fianco del cimitero del suo paese, quel santuario dove andava a giocare, mentre i grandi dicevano il rosario, durante il mese di maggio; quello che visitava alla festa dei morti o raggiungeva a piedi nelle sere d’estate.
“Quella” Madonna (non un’idea, ma un fatto), anche dopo una vita coi suoi alti e bassi, coi suoi dolori ed errori, col suo desiderio di compimento, “quella” Madonna «non invecchia mai».
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