I centocinquant’anni dell’Unità d’Italia e l’approssimarsi dell’incontro interreligioso di Assisi hanno riacceso i riflettori su quello straordinario personaggio che è stato il figlio di Pietro Bernardone, quel Francesco d’Assisi che dell’Italia è il patrono e del dialogo interreligioso un antesignano, per via del suo famoso viaggio dal Sultano.
A dire il vero, i riflettori non si sono mai del tutto spenti. Forse nessun altro santo italiano è stato altrettanto frequentato da storici, teologi, pittori, cineasti, commediografi eccetera. Ora anche grandi quotidiani gli dedicano intere paginate, magari per ricordare che Francesco è stato strumentalizzato ai tempi del fascismo come prototipo di un’italianità aggressiva e poi, a loro volta, strumentalizzarlo per dire quanto i politici attuali sono lontani dalla francescana sobrietà e dalla sua esigente povertà e castità.
In effetti, san Francesco è stato spesso descritto con parzialità. Così abbiamo dovuto sorbirci – per limitarci agli ultimi decenni – il contestatore dell’autorità ecclesiastica, l’ecologista adorante più la madre terra che il suo Creatore, il pacifista a oltranza, il mite dialogante con l’Islam, lo spregiatore del nascente capitalismo, il mistico disincarnato.
Evidentemente ognuna di queste immagini parziali ha dovuto nascondere qualcosa della biografia del santo: la sua cristallina ubbidienza alla Chiesa gerarchica, pur nella consapevolezza acuta dei suoi limiti; la coscienza che il creato è «fratello» perché inserito nel gran disegno della salvezza, fino al punto di sentire fraternamente anche la cosa più lacerante dell’esistenza: la morte; la visione cavalleresca e quindi in un certo senso combattiva della propria vita terrena; il desiderio di convertire a Cristo, unica via di salvezza, anche i seguaci di Maometto; la povertà come imitazione di Cristo e non spregio dell’onesta intraprendenza; la carnalità del rapporto con il Signore crocifisso fino ad assumerne sul proprio corpo le ferite.
Eppure sarebbe così semplice non essere parziali e guardare Francesco per quello che è stato. Basterebbe, ad esempio, osservare uno dei più antichi ritratti, quello del Cimabue nella basilica inferiore di Assisi. La scena è in gran parte occupata dalla Vergine col Bambino seduta su un imponente trono circondata da angeli. Lui, Francesco, è sulla destra, un passo indietro, come non volesse distrarre l’attenzione da ciò che veramente conta. Mostra la ferita al costato quasi con timidezza e guarda lo spettatore con la dolcezza sicura di chi ha un grande e bellissimo segreto.
Deve essere stato proprio questo sguardo che ha prodotto lo straordinario movimento di uomini e donne che lo hanno seguito su una strada ardua, in cui la «perfetta letizia» implica essere maltrattati e irrisi, la ricchezza coincide con la libertà da ogni possesso, la massima espressione di sé con la sequela del vangelo «sine glossa».
Nessuno come Dante ha saputo cogliere quell’attimo in cui un uomo capisce che gli conviene seguire totalmente un altro uomo e quello che quest’altro sta guardando. È perché hanno visto i «lieti sembianti» e il «dolce sguardo» di Francesco e della sua amata Povertà che Bernardo «corse dietro a tanta pace», senza calcolare il prezzo. È per la scoperta di una «ignota ricchezza» che «scalzasi Egidio, scalzasi Silvestro».
Tutti i commentatori parziali di san Francesco non si sono mai scalzati di niente.