La prima esecuzione del capolavoro di Igor Stravinskij, il balletto Petrouschka (lo scrivo alla francese perché era allora Parigi la patria di elezione del compositore russo e nella capitale francese fu inizialmente rappresentato), avvenne il 13 giugno di cent’anni fa.
Fu un successo, perché confermava la ricca vena descrittiva del musicista, la sua capacità di mettere in musica il fiabesco mondo di una Russia lontana, popolare e profonda; e confermava la straordinaria genialità ritmica e timbrica dell’ancor giovane (aveva allora 29 anni) musicista.
Parlando della composizione di questo capolavoro (forse il più eseguito di tutto il repertorio stravinskiano) il compositore ricorda curiosamente due fatti. Il primo è la nascita del suo secondo figlio, avvenuta proprio nelle prime settimane di scrittura dell’opera. Il secondo è un sogno nel quale era diventato improvvisamente gobbo, come un fantoccio sformato.
La vicenda del balletto è presto raccontata. Siamo a Pietroburgo durante i festeggiamenti del carnevale e tutto il popolo è raccolto in piazza a danzare, bere, curiosare tra i capannoni della fiera, ricchi di meraviglie mai viste: l’orso che balla, la lanterna magica, i giocolieri e i funamboli. In un carrozzone il Ciarlatano presenta e fa ballare i suoi tre pupazzi animati: la Ballerina, bella ma un po’ svampita, il Moro, forzuto e tonto e, appunto, Petrouschka, non tanto furbo, ma stranamente sensibile per essere un pupazzo.
Nel bel mezzo del finale della festa, la tragedia: Petrouschka, innamorato geloso della Ballerina, la coglie in compagnia del Moro; scatta il litigio che si conclude con l’uccisione del più debole. La gente si raccoglie sconcertata attorno a Petrouschka, ma il Ciarlatano si affretta a mostrare che si tratta solo di un pupazzo e lo trascina via tra la neve. La gente tira il fiato e si avvia verso casa.
Se finisse così, il balletto sarebbe semplicemente un’ottima prova di tecnica musicale, che è davvero travolgente ed estremamente innovativa; sarebbe una fiaba ben raccontata, ma pur sempre una fiaba: brillante e con un finale malinconico. Malinconico per modo di dire perché in fondo è morto solo un pupazzo e neanche troppo sveglio.
Ma quando ormai si spengono le ultime luci della fiera ecco che su in alto (in alcune messe in scena, addirittura seduto sullo spicchio della luna) ricompare Petrouschka. È vivo e vegeto e così allegro da sembrare, così fa intendere la musica, che si faccia beffe del Moro, del Ciarlatano, dei compaesani e anche del pubblico. È vivo «perché il suo spirito è immortale», ha scritto un critico.
Ma qual è il suo spirito? Non l’archetipo del perdente che ha ragione, non la malinconia dell’innamorato deluso, non l’eterna rinascita dell’uomo di spettacolo che si incarnerà in nuove parti. Il suo spirito immortale è quello di tutti gli uomini; è quella strana cosa che il giovane padre Igor ha percepito vedendo uscire dal seno materno il suo secondogenito, è quello che rimane anche se il corpo si ingobbisce dolorosamente.
E quando si esce da teatro – dopo le ultime note che concludono il balletto non con un accordo fragoroso, ma in un incantato silenzio – rimangono nella memoria proprio le ultime note: lo sfacciato, penetrante, ironico, gioioso squillo di tromba con cui Petrouschka, vivo, ci saluta.