Referendum: che cambiamento?

Da dove nasce il risultato referendario? E soprattutto, come è possibile interpretarlo, declinarlo per il futuro del paese? Ecco alcuni spunti di riflessione

Louis Antoine de Saint-Just non era propriamente un garantista e da leader giacobino oggi festeggerebbe la vittoria referendaria al fianco di Antonio Di Pietro. Ed è di Saint-Just la frase che meglio fotografa la situazione politica venutasi a creare in questi mesi in Italia: “Coloro che fanno una rivoluzione a metà non hanno fatto altro che scavarsi una tomba”.

Chi promette rivoluzioni e non le completa, ne muore. È la lezione di cui oggi deve fare tesoro Silvio Berlusconi. Inutilmente, dopo il disastro di aver trasformato il voto amministrativo di Milano e Napoli in un test nazionale sulla sua leadership, ha tentato di sostenere che i quattro “veri” referendum di ieri non avessero valore politico. È stato un voto politicissimo, un referendum pro o contro il premier, tant’è vero che – pur di colpire Berlusconi – Bersani ha improvvisamente abbandonato le posizioni favorevoli a liberalizzazioni e privatizzazioni abbracciando le tesi stataliste sulla gestione dell’acqua.

La fortuna politica di Berlusconi è legata in gran parte alla promessa di realizzare una rivoluzione liberale in Italia. Nei primi anni 90, in cui i vincoli di Maastricht e lo sfascio dei conti statali imponevano tagli agli sprechi mentre Mani pulite faceva piazza pulita di un’intera classe politica, l’entrata in politica di Berlusconi doveva accompagnare e favorire l’affermarsi di una novità per l’Italia: più società, più libertà, più mercato, più sussidiarietà, e meno Stato.

A quasi vent’anni da quella “discesa in campo” bisogna prendere atto che della rivoluzione liberale promessa è rimasta soltanto l’illusione. Le grandi riforme si sono rivelate, tutt’al più, piccoli ritocchi a un sistema che non vuole cambiare: pensiamo alla semi-riforma della scuola e dell’università; alle mancate liberalizzazioni; al rigore oppressivo dei controlli statali e al moltiplicarsi della burocrazia sulle imprese, che ne ostacola la nascita e lo sviluppo; la debole spinta verso quella alleanza tra enti pubblici, privati, realtà sociali che in Italia nei secoli ha favorito la coesione sociale e il bene comune. Non è stato, però, solo demerito di Berlusconi: determinante è stata anche la ferocissima opposizione di parte della magistratura che ha protratto sine die la stagione di Tangentopoli sostituendosi al popolo sovrano nella determinazione delle sorti del paese e opponendosi a ogni tentativo riformatore.

La rivoluzione fallita ha sortito, quindi, l’effetto opposto. Una controrivoluzione. Il predominio della disillusione e della paura ha portato gli elettori a rifugiarsi dietro i nuovi alfieri dello statalismo. L’incertezza sul presente e il timore del futuro si traducono nella vittoria elettorale delle forze massimaliste e stataliste impersonate da Vendola, Di Pietro, Grillo, Pisapia, De Magistris. I programmi elettorali per l’amministrazione delle città e la base ideologica dei referendum sono accomunati proprio dalla convinzione che soltanto il “pubblico”», cioè la politica, risponde a tutti i bisogni dei cittadini attraverso la gestione dei servizi, dall’acqua all’educazione, mentre il privato e le opere sociali intralciano questa azione illuminata e distorcono l’utilizzo delle finanze pubbliche.

Paradossalmente, questa controrivoluzione anti-Berlusconi si compie attraverso gli stessi strumenti portati in auge dal Cavaliere: la televisione, i giornali, l’uso dei mass-media, l’impatto dell’immagine a scapito dei contenuti, il clima di scontro continuamente alimentato. Pisapia, De Magistris, Grillo sono figure create dal tam-tam della grande stampa, dai talk-show politici in tv, dai social-network su internet che favoriscono incontri virtuali tra le persone senza scendere al cuore del desiderio di ognuno. Le forze autenticamente riformiste, a destra come a sinistra, sono fatte fuori.

Le amministrative e i referendum urgono un cambiamento. È necessario abbandonare il ritorno all’ideologia statalista (che ha prodotto deficit insostenibili nei bilanci pubblici, inefficienze e rendite di posizione per il sottobosco della politica) e invece sostenere il contributo che ciascuno (pubblico, privato, opere sociali) può dare al bene comune, senza rivoluzioni a metà e senza più illudere il popolo.


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