Vertigine e certezza
PIGI COLOGNESI offre spunti di riflessione sul tema del prossimo Meeting di Rimini: la certezza. In un mondo sempre più incerto e sempre meno stabile, dobbiamo vincere le nostre vertigini

Con l’editoriale di oggi vorrei provare ad offrire spunti di riflessione sul tema del prossimo Meeting di Rimini: la certezza. Sono veramente spunti, senza nessuna presa di organicità o di esaustività. Un semplice invito a pensarci su.
Il punto di partenza è la constatazione che viviamo in un mondo che, al di sotto della sicumera esteriore degli atteggiamenti, è profondamente incerto, preda ad una specie di mal di mare provocato dalla instabilità del terreno su cui poggiano i piedi dei sentimenti, dei pensieri e delle azioni. È una condizione descritta magistralmente da Pascoli in uno dei suoi Nuovi poemetti. Immagina il nostro pianeta improvvisamente privato della forza di gravità; noi uomini, che prima sembravamo con i piedi saldamente fissati al terreno, ora siamo «penduli», con la testa in giù nell’infinità del cielo. Guardando le cose così, viene lo sgomento, la paura di «cadere in cielo»; la notte stellata si trasforma in un baratro, un «cupo vortice di mondi», nel quale si precipita verso un fondo di cui non si intravvede la fine. Vengono le vertigini; ed infatti La vertigine è il titolo di questo inquietante poemetto pascoliano. È la stessa vertigine che dà l’incertezza. Ci resta solo di aggrapparci alla cosa più vicina: «Allora io, sempre, io l’una e l’altra mano / getto ad una rupe, a un albero, a uno stelo / a un filo d’erba, per l’orror del vano!».
C’è un unico antidoto a questa vertigine: la semplice constatazione che la forza di gravità c’è, che le cose ci sono, che io non sto cadendo verso l’ultima nebulosa della galassia. Non è un gioco di parole o un superficiale divertimento dell’immaginazione. L’incertezza in cui viviamo è generata da un virus originale: la sostituzione del dato elementare con il contenuto mentale o sentimentale. Allora vale tutto e tutto è uguale a tutto e, in fondo, uguale a zero. La prima sorgente di certezza è lo stupore che le cose sono e sono come sono, è l’evidenza del dato. Un’evidenza che anzitutto produce stupore: è stupefacente che le cose, ed io fra lori, ci siano. Nessun pensiero e nessuno stato d’animo possono farmi tornare indietro da questa evidenza e da essa si parte per ogni avventura conoscitiva o affettiva.
Molto si potrebbe citare per documentare questo stupore originario. Mi limito al finale di una famosa novella di Pirandello: «Restò – appena sbucato all’aperto – sbalordito. Il carico gli cadde dalle spalle. Sollevò un poco le braccia; aprì le mani nere in quella chiarità d’argento. Grande, placida, come in un fresco luminoso oceano di silenzio, gli stava di faccia la Luna. Sì, egli sapeva, sapeva che cos’era; ma come tante cose si sanno, a cui non si è dato mai importanza. E che poteva importare a Ciàula, che in cielo ci fosse la Luna? Ora, ora soltanto, così sbucato, di notte, dal ventre della terra, egli la scopriva. Estatico, cadde a sedere sul suo carico, davanti alla buca. Eccola, eccola là, eccola là, la Luna… C’era la Luna! la Luna! E Ciàula si mise a piangere, senza saperlo, senza volerlo, dal gran conforto, dalla grande dolcezza che sentiva, nell’averla scoperta, là, mentr’ella saliva pel cielo, la Luna, col suo ampio velo di luce, ignara dei monti, dei piani, delle valli che rischiarava, ignara di lui, che pure per lei non aveva più paura, né si sentiva più stanco, nella notte ora piena del suo stupore».
Suggerisco poi di osservare la celebre foto di Giorgio Morandi [http://www.goartgallery.it/Artisti/Giorgio-morandi.aspx] che guarda bottiglie e vasi, soggetto quasi esclusivo alla sua pittura. Cosa c’è di più banale di una bottiglia? Non è assolutamente banale, però, che quella bottiglia ci sia e stia lì sul tavolo, offerta al mio sguardo. L’umile accettazione del suo esserci, del dato inesorabile che essa rappresenta di fronte a me è origine di ogni certezza.
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