Non è la prima volta che utilizzo brani della Divina Commedia per tentare di illuminare questioni di stretta attualità. Il lettore mi perdonerà se appaio monotono, ma ci sono delle formule espressive che sono così azzeccate, quasi perfette, che non si può far a meno di ricorrervi per spiegare quello che si intende dire.
L’attualità è la quotidiana comparsa di articoli, servizi radio televisivi, interviste e commenti che bersagliano Comunione e Liberazione. Non c’è bisogno di dilungarsi a dettagliare e neppure di entrare nel singolo caso particolare; anche perché ciò che rimarrà nell’opinione pubblica dopo il trambusto sarà soltanto un sentore generico, un’aura malsana, più che un giudizio preciso. Per dare un indicatore della temperatura raggiunta, ricordo soltanto che è stato persino scritto che essere di CL non è un reato ma sarebbe meglio che lo diventasse.
Il passo della Divina Commedia è quello con cui inizia il quinto canto del Purgatorio. Un gruppo di anime si accorge che dei due nuovi arrivati – Virgilio e Dante – il secondo imprime un’ombra sul terreno, mentre tutti loro e l’accompagnatore hanno un corpo diafano che viene attraversato dai raggi del sole. Cominciano allora a parlottare fra di loro con una certa agitazione, ognuno a dir la sua sullo strano fenomeno. Dante – che, non dimentichiamolo, si trova in quel posto perché deve percorrere un cammino di purificazione che lo condurrà al paradiso terrestre prima e a quello celeste poi – si sofferma a dare ascolto al parlottio che lo riguarda e ne viene un poco turbato. Allora Virgilio interviene con tono deciso: «Perché l’animo tuo tanto s’impiglia che l’andare allenti?», perché ti lasci frastornare e complicare fino al punto di frenare il passo?
La risposta è ovvia: il rallentamento è dovuto al fatto di prestare ascolto a quello che il gruppo del penitenti sta dicendo di me. E infatti, senza neppure ascoltare la prevedibile giustificazione, il poeta latino aggiunge: «Che ti fa ciò che quivi si pispiglia?», che t’importa di quel che dicono di te? Non gli dice che quelle chiacchiere (noi potremmo aggiungere: insulti, sospetti, pettegolezzi, dicerie; ma potremmo anche – in senso inverso – metterci: elogi, complimenti, lodi) non riguardano Dante, non lo scombussolano con brandelli di verità o non meriterebbero una replica. Gli dice che non sono decisive rispetto al suo obiettivo, non sono importanti se paragonate allo scopo per cui s’è messo per strada e sta camminando.
Netto, dunque, il consiglio-ordine che Virgilio dà al suo discepolo: «Vien dietro a me, e lascia dir le genti». Hai ben altro da fare che attardarti nella palude di quello che gli altri pensano di te, hai una meta sublime per raggiungere la quale non devi lasciarti zavorrare da niente, tantomeno dalla cattiveria di chi ti combatte o dalla meschinità di chi non vuol capirti; trattieni quello che ti serve e prosegui deciso. Non solo: hai anche una guida sicura nel cammino: «Vien dietro a me», e questo «me» non è anzitutto un simbolo – Virgilio rappresenta la ragione, si è soliti dire -, ma è proprio quell’uomo preciso, che in quel preciso momento lo sta correggendo e quindi sorreggendo.
Coscienza dello scopo e sicurezza del cammino sono i due fattori grazie ai quali ogni Dante della storia può stare «come torre ferma, che non crolla già mai la cima per soffiar di venti».