Nelle scorse settimane il governo brasiliano ha approvato un provvedimento che, pensato nel contesto di crisi che tutto il mondo vive, può sembrare paradossale: si tratta di un voucher per la cultura (“vale cultura” è il nome assegnato all’iniziativa). In sostanza, grazie a un sistema di agevolazioni fiscali, i lavoratori dipendenti avranno a disposizione una carta per spendere l’equivalente di 25 dollari in libri, ingressi a musei, dvd, cinema o teatri.
Basta mettere il 10% del costo, al resto ci pensa il datore di lavoro che poi viene rimborsato dallo stato. Il Brasile non è nuovo a meccanismi di questo tipo, perché già Lula durante la sua presidenza, aveva lanciato Bolsa famiglia, una social card per agevolare i consumi delle famiglie meno abbienti e quindi per combattere la povertà. Qui invece ci troviamo davanti a un voucher per rispondere e incentivare un bisogno diverso e che non può essere definito “primario”.
Eppure l’iniziativa coraggiosa e per certi versi sorprendente del governo brasiliano offre spunto per qualche ripensamento proprio sull’idea che troppo spesso ci facciamo sulla cultura: come qualcosa cioè che riguarda una parte minoritaria e scelta della società. Insomma un settore di consumi “nobili”. È questa la “cultura” per cui si battono giornali e intellettuali in un circuito molto autoreferenziale, scandalizzandosi per i tagli sistematici, per la mancanza di risorse o all’opposto, puntando l’attenzione su nuove tendenze o personaggi di successo. Pochi poi si preoccupano di capire la ragione per cui il 58% degli italiani in un anno non mette mai piede in un museo, o di quel 60% che non legge neppure un libro.
La scommessa brasiliana invece va in una direzione opposta. Parte dal presupposto che si debba lavorare per allargare a 360 gradi la domanda e che poi, proprio la domanda determinerà gli equilibri dell’offerta. La cultura deve permeare tutti i livelli della vita e della realtà, perché solo così diventa ricchezza vera, nel senso di maggiori conoscenze, maggiore consapevolezza, maggiore capacità critica. Una dinamica che certamente può innescare anche processi economici importanti: nuove imprese per rispondere a una domanda molto più diffusa, e un arricchimento del capitale umano.
Ma c’è di più. In un altro paese latinamericano da anni cresce un’esperienza che tutto il mondo guarda con sorpresa e un po’ di invidia. È “el Sistema” del maestro José Abreu che in Venezuela ogni giorno garantisce scuola di musica a ben 380mila bambini. Le emergenze sociali ed educative in quel paese, che ha un 30% della popolazione sotto i 14 anni, sono drammatiche, e si potrebbe pensare che la musica sia l’ultimo dei bisogni a cui pensare. Invece non è così: la musica è diventata un baluardo contro la deriva sociale, ha offerto prospettive professionali a migliaia di ragazzi (il caso di Dudamel è noto in tutto il mondo), ha generato, nel meno fortunato dei casi, studenti molto più positivi nel normale cursus scolastico. In una recente intervista Abreu ha sottolineato con un pizzico di ironia come il costo complessivo di El Sistema sia equivalente a quello di un teatro lirico italiano come il Massimo di Palermo. Se il budget è lo stesso è imparagonabilmente diverso il beneficio sociale: e questo evidenzia due sguardi molto diversi su cosa sia cultura e su quale sia, nello specifico, il valore della musica.
Se la cultura e la musica non c’entrano con la vita a tutti i suoi livelli, davvero possono essere viste come un lusso, a beneficio di pochi. Se invece la cultura prova a entrare in gioco come energia diffusa capace di affrontare il reale e di rispondere a bisogni profondi e ineliminabili di ogni uomo, allora diventa un “bene essenziale”. Certo non basta un voucher per arrivare qui. Ma il tentativo brasiliano quanto meno smantella tanti arroccamenti e apre un confronto tra la cultura e la vita vera. Vedremo cosa ne nascerà.